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IT | Prima Parte

IT | Prima Parte
It, il titolo più breve per un romanzo horror che la storia della letteratura ricordi. Derry, il paese più infestato di presenze malvagie al mondo. Pennywise uno dei villain più iconici di sempre. Lunghi giorni e piacevoli notti cari coloni sperduti. Dunque è arrivato il tempo di parlare di questo libro cult di tante, tante generazioni, che andrebbe riletto in diverse fasi della propria vita per cambiarne chiave di lettura, per decifrarne messaggi diversi a seconda dell’età e per apprezzarlo in nuove sfumature del proprio intendere. Spesso, prima di chiacchierare del romanzo di turno, mi fermo a citare i film che ne sono stati tratti o le serie televisive, permettetemi, questa volta, di non farlo. Sia perché ci sarebbe troppo da dire, sia perché le ultime recentissime pellicole, che del romanzo hanno giusto un’impalcatura precaria, credo che le abbiano viste anche le talpe cieche negli antri delle caverne dimenticate della Groenlandia. In ultimo, sinceramente, il libro che ho tra le mani vale molto di più di un qualsiasi film o di una qualsiasi serie abbia ispirato. Per la storia in sé, certo, ma in particolare perché It non è solo la trama. Non è solo il Club dei Perdenti. Non è solo Derry, non è solo Pennywise il clown assassino. It è un mondo. Ed essendo un mondo contiene moltissime tematiche che vanno oltre la semplice paura, l’horror e la tensione e che per quanto possibile devono essere prese in considerazione. In due parti almeno.

Cosa abbiamo tra le mani.

Su questo libro ne sono state dette di tutti i colori, ma proprio letteralmente, a partire dal colore  Acquamarina, passando per gli altri 230 e finendo col color Zaffiro. E It li racchiude tutti. La forchetta statistica dei giudizi espressi sul romanzo, poi, va da “è una ciofeca” a “capolavoro assoluto”. In aggiunta a questo, per la discutibile e dibattuta scena di sesso tra ragazzini dodicenni, molte volte è stato oggetto di fortissime critiche che hanno evitato la censura per un soffio. Sinceramente il pezzo in questione mi ha sempre disturbata e non capisco come mai King abbia voluto scriverne visto che si potevano scegliere soluzioni diverse al problema presentatosi, certo l’inventiva non gli mancava. Comunque sia ormai, a quasi trentacinque anni dalla prima pubblicazione, non si dichiara il falso dicendo che sono poche le persone al mondo che non hanno mai sentito parlare del clown Pennywise. Di cosa parla It? Di una manifestazione maligna che ama vestirsi da clown, che banchetta con bambini e ragazzi giovani e che in almeno due occasioni è stata battuta da un gruppo di Perdenti. Poi It parla di soprusi sulle donne e di donne che non accettano più soprusi, di bullismo causato, subito e contrastato, di discriminazione di ogni sorta che sfocia in omofobia e violenza, di amicizia vera, di emarginati che alzano la testa, del cuore unico di un gruppo che fa fronte comune contro il male, di affetto fraterno, della spensieratezza dell’infanzia, del coraggio di ribellarsi, della necessità di andare oltre le proprie paure anche a costo di perdere la sanità mentale, del perdersi tante volte ed altrettante ritrovarsi, dell’agire in uno schema già predefinito da Qualcuno e al tempo stesso dell’importanza delle proprie decisioni, del riappropriarsi di quella capacità tipicamente infantile di vedere cose che l’età adulta non ti fa vedere più, del commiato dalla gioventù per diventare grandi, della bianchissima e cristianissima società americana che picchia moglie e figli e poi legge la lettura della domenica in chiesa, di eroi che possono essere piccoli, perdenti, comuni, terrestri e senza mantello o capacità sovrumane, del coraggio di recuperare un po’ di ciò che si è stati a dodici anni e di un faccia a faccia col Male che spesso ha un palloncino rosso in mano, ma la maggior parte delle volte, è già presente da tempo nella vita di tutti tanto che ci si fa l’abitudine. Tanto siamo a Derry. Con premesse del genere mi sento di inserire It nella rosa dei romanzi più belli scritti dal Re ma non solo. Lo inserirei anche in una classifica mondiale a battagliare per il Primo Posto. Vota Stephen! Vota Stephen! Vota Stepheeeeen!

 

La barchetta di carta.

Per l’intero romanzo viaggio nel tempo. Derry Anni Cinquanta e Derry Anni Ottanta e seguo lo stesso gruppo di ragazzi che da giovani adolescenti prima, ritrovo adulti dopo, a quasi trent’anni di distanza. Seguo loro perché loro sono i Perdenti che se la vedranno con It in circostanze, modalità e criteri diversi per ciascuno ma per la stessa ragione, ovvero, toglierlo di mezzo. La struttura narrativa comunque non è solo una eco di presente e passato, è un continuo di flashback, certo, ma è anche sogni e ricordi, incubi ad occhi aperti, racconti di un diario o dei protagonisti stessi e via dicendo. Un intreccio tale che neanche un Marzullo dei tempi migliori con la sua vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere meglio capirebbe come dipanare il tutto. Eppure, nonostante a volte non si abbia la piena cognizione dello spazio temporale che si sta leggendo (soprattutto verso la fine), la storia corre veloce come un treno, sia che ci si ritrovi addormentati dentro un cespuglio aspettando che i bulli passino oltre, sia che si viaggi in aereo, da adulti, con i postumi di una sbornia colossale. E in tutto questo, accanto a quelli tremendi, a quelli prettamente horror, dove il sangue scorre a cascate, ci sono pezzi di grande emotività. Di grande impatto. Si scorgono persino pezzi leggeri, simpatici e al tempo stesso tinti del color rosso arancio del sentimentalismo. Come quando si viene a sapere che Mike Hanlon si accorge dell’arrivo della primavera nel momento in cui il padre tira fuori dalla rimessa un simpaticissimo ferro vecchio, a metà tra un macinino, un camion (nulla a che vedere con il terribile collega del racconto Il camion dello zio Otto in Scheletri), un divano, un mezzo pollaio e un carro attrezzi. Gli Hanlon lo caricano ad ogni Aprile di sassi (per non far rompere le lame dell’aratro rivoltando le zolle di terra) ed il piccolo Mike si chiede come mai,  ogni volta, nello stesso campo, di sassi ne ritrovano sempre altri, sempre di nuovi, come se tornassero. Il padre gli conferma che effettivamente quelli tornano sugellando la loro complicità abbracciandosi e dichiarandosi di volersi bene. Altre volte poi si scorge un King molto suggestivo, addirittura poetico. Quando ad esempio racconta dei colori delle giornate di autunno, dell’amore di un dodicenne verso una ragazza, del ricordo delle giornate spensierate col proprio fratellino, prima della tragedia, della forza di una donna che fugge dal proprio carnefice.

 

Georgie, Adrian e Stan.

Nei primi capitoli leggo già di tre omicidi che hanno come comun denominatore Pennywise e il piccolo paesino. Vengono uccisi Georgie Denbrough, Adrian Mellon e Stan del gruppo citato poco fa. Come mai proprio loro tre? Ora ve lo dico. Circa ogni ventisette anni a Derry (che come dice uno dei protagonisti è essa stessa IT), il già altissimo record di omicidi, morti, tragedie, sparizioni e rapimenti subisce un’impennata incredibile. La cosa è sconvolgente ma ciò che destabilizza ancora di più sapere è che la gente pare non farsene troppo un cruccio. Vivono un po’ tutti nel giogo di una qualche volontà esterna (in realtà la volontà è interna) che annebbia loro vista e giudizio, non li fa intervenire se c’è da intervenire, non li fa vedere se c’è da vedere, addirittura, li fa voltare dall’altra parte. All’ennesima disgrazia le autorità mettono il coprifuoco, le persone non escono la sera, con l’aggiunta di qualche avviso di bambini e adolescenti scomparsi lasciati in giro, di volantini affissi sugli alberi, foto sul cartone del latte, poster sui cartelloni della pubblicità, ma tutto finisce lì. Come se fosse normale, come se l’orrore fosse parte della quotidianità e quasi accettato. Questo stato di cose aiuta tantissimo la presenza maligna che vive da sempre (ma proprio da SEMPRE) proprio a Derry e che nel 1957, appena dopo una potentissima alluvione, riprende la sua dieta carnivora a base di fanciulli uccidendo Georgie, un bimbo di sei anni, fratello di colui che battaglierà con Pennywise per l’intero romanzo, William Bill Tartaglia Denbrough. La scena della morte di Georgie, ammetto, mi ha sempre addolorata sia per la cosa in sé ovviamente ma soprattutto per le modalità in cui si è svolta. In un momento di gioco, con una barchetta in mano, il bimbo esce per farla navigare sui rivoletti d’acqua createsi un po’ ovunque in paese dopo forti piogge e non fa più ritorno a casa. Adescato ed ucciso in pochi minuti dal clown. Ma sebbene sia stato Pennywise ad uccidere Georgie tutti, all’inizio, credono che la sua morte sia stata una terribile disgrazia dovuta dall’alluvione, da qualche disattenzione del piccolo o magari da una semplice, tragica, fatalità. Ovvio, siamo a Derry non dimenticatelo. Bill stesso ancora ignora la presenza del pagliaccio ma posso affermare che è ufficialmente iniziata la storia.

 

Il peso dei ricordi.

Salto adesso fino al 1984 e mai vorrei vedere il pestaggio riservato al povero Adrian Mellon che ha come unica colpa quella di essere gay, perché a Derry è una colpa esserlo. Sono degli sballati a picchiarlo, a metà tra bulli e poveracci di paese, ma anche quando più tardi la banda di picchiatori verrà arrestata, leggerò i pensieri dei poliziotti e degli investigatori che condivideranno molto di quello stesso ribrezzo e disprezzo verso gli omosessuali, al pari quasi dei furfanti che stanno torchiando per far confessare. Durante l’interrogatorio i ragazzi ammettono di aver inseguito Adrian, di averlo picchiato e di aver culminato lo scontro buttandolo giù dal ponte verso il fiume, ma dicono anche che non sono stati loro ad ucciderlo. Che sotto il ponte, in attesa, c’era qualcuno vestito da clown che ha intercettato Ade, lo ha tirato a riva ed ha iniziato a mangiarselo partendo dalle ascelle. Il tutto condito con mille palloncini colorati con la scritta I  Love Derry.

 

I componenti del gruppo di purga confermano l’avvistamento, ma ovviamente né i poliziotti, né nessun altro al mondo crederà alla storia che viene chiusa in fretta e che vede gli assalitori condannati, per fortuna. Almeno quello. Quindi Pennywise non ha nemmeno timore di farsi vedere. Scambia addirittura battute con i malcapitati di turno o con chi lo avvista, regala palloncini, si lancia in balletti e risatine sarcastiche, azzanna parti del corpo della vittima sotto gli occhi dei testimoni e non si ritira immediatamente nell’ombra. Ma indugia. Non ha timore che la gente parli, o meglio, se anche la gente si mettesse a raccontare storie, andiamo, chi potrebbe credere in quella del pagliaccio cannibale? Ecco che capisco che a suo favore ha un’arma ben più potente dei poteri sovrannaturali che utilizza di solito: l’ottusità delle persone, la loro cecità. Se ne fa uno scudo e ci si nasconde dietro per continuare indisturbato i suoi banchetti osceni.

Addio Stan.

Il terzo omicidio è in realtà un suicidio. Uno dei bambini che nel 1957 ha combattuto con i suoi amici It, Stanley Uris detto Stan, è ormai adulto. Ha una moglie che ama e si sta impegnando come non mai per fare qualcosa di buono della sua vita. Vorrebbe diventare padre ma proprio non riesce, il suo grande cruccio, però ha fiducia che prima o poi un bimbo entrerà in casa e così non si perde d’animo. Fino all’arrivo, una sera, di una telefonata. È il suo amico Mike. Mike dei tempi andati, della battaglia immane contro Pennywise. Mike del giuramento che se It fosse tornato loro si sarebbero di nuovo ritrovati a Derry per combatterlo ancora. E di colpo qualcosa si deve essere rotto dentro il povero Stan. Non riesce a rispondere di no all’amico d’infanzia, che non sarebbe andato, che non avrebbero dovuto contare su di lui, ma non riesce neanche a considerare l’idea che tutto possa essere di nuovo iniziato. Non ce la fa. Forse l’orrore vissuto è stato peggiore di quanto Stan stesso abbia mai ammesso, così mette fine alla sua esistenza nel bagno di casa sua, nella vasca, tagliandosi i polsi e lasciando col proprio sangue due lettere scritte che per la maggior parte del mondo non hanno significato ma che per pochi coincidono con l’inferno: It. Dopo la telefonata a Stan da quel di Derry partono altre chiamate verso i posti più disparati del Paese. E’ indubbio che qualcosa è successo. E’ tempo di tenere fede alla promessa e di tornare a spalancare le porte che conducono a Pennywise, peccato solo che siano porte piene di cadaveri.

Chiamata alle armi.

Dopo Stan, Mike chiama uno ad uno tutti gli altri: Richie, Ben, Beverly, Eddie e Bill. Ed è spaventoso, più che incredibile, notare come i ricordi sepolti per decenni irrompano nelle loro vite fino a poco prima avviate, impostate e razionali e le capovolgano tutto d’un tratto. Al suono della parola Derry, tutti tornano ad essere le persone di trent’anni prima, con le stesse paure, con lo stesso gelido terrore che irrompe nei loro cuori, agghiacciandoli, stritolandoli. E come in un incantesimo oscuro, non c’è più traccia dell’età adulta, delle scelte fatte, anche coraggiose, nelle loro vite. Tutto sparito. Ognuno di loro, chi più chi meno, reagisce di primo acchito allo stesso modo, incredulità, rifiuto, accettazione, consapevolezza, terrore. Quasi come negli stadi di elaborazione del lutto, solo che It è un lutto che non si elabora, neanche in trenta anni, così come Derry è sbagliata, Derry è storta, a Derry c’è sempre qualcosa che non va bene. A Derry i bambini morti parlano dalle tubature del lavandino o del bagno e può capitare che un padre senta ridere la figlia che ormai non c’è più proprio da quei tubi, solo che il riso sembra più un grido. Di colpo sanno tutto questo gli adulti che un tempo erano i bambini dei Perdenti. E anche se nel corso del tempo sono diventati scrittori, disk jockey alla radio, architetti famosi, designer affermati, o autisti di star del cinema e via dicendo, nulla sembra avere più senso. Tutto questo è cancellato dalla telefonata che ricevono, o meglio, che subiscono, come una violenza, come una tragedia inaspettata. E come per un tetro incantesimo che sfida le leggi del tempo, riecco il Club che si mette in moto e parte per Derry, verso l’orrore di rincontrare Pennywise. Ma oltre il terrore accade qualcosa di positivo in loro. Sembra strano ma è così. Prendiamo ad esempio Eddie e Beverly. Eddie, che ha sposato la fotocopia un po’ più giovane della madre, in un meccanismo psicologico quasi incestuoso, che ha la valigia  piena di medicine, più di un rappresentante farmaceutico, che a un certo punto ha capito che la sua asma è più psicologica che altro, che è schiavo delle paure che si porta dietro dai quattro anni di età, che non avrebbe fatto nulla di più coraggioso dell’uscire di casa senza cappello in un giorno di vento, lui, Eddie, appena riceve la telefonata di Mike, parte. Sia quel che sia. Contro qualsiasi logica, contro ogni comportamento assennato, ragionevole, equilibrato e saggio portato avanti negli ultimi trenta anni. Eddie parte e basta. Poi c’è Beverly, Bev. Non vi nascondo, cari coloni miei, che mi è stato difficile portare a termine il capitolo Beverly Rogan le busca (così come il pezzo su Kay, l’amica, che viene pestata a sangue). È più spaventoso della storia di It nel suo totale e questo perché la violenza sulle donne non è fantascienza, fiction o invenzione. È pura attualità. Ma torniamo a Bev, legata al suo carnefice, che non prende neanche in considerazione di andarsene nonostante le violenze anche molto brutali, nonostante le frustate, nonostante a volte non si possa sedere per giorni. Lei, proprio lei, all’arrivo della telefonata di Mike Hanlon ha il coraggio di fuggire dal marito mostro. Ce le prende, ce le prende di brutto anche questa volta ma, questa volta, è stata l’ultima. Non subirà più. E fugge nella notte verso un altro mostro che però sembra quasi più abbordabile di quello appena lasciato. Quindi cosa è scattato in loro? Qualcosa di più forte persino della paura di ciò che affronteranno e di ciò che si stanno abbandonando alle spalle.

Aggiungi un posto a tavola.

Leggendo dei Perdenti Anni Cinquanta scopriamo come ciascuno di loro abbia incontrato It nelle sue mille trasformazioni, lebbroso, lupo mannaro, mummia, uccellaccio enorme e via dicendo. E’ Richie, e la cosa mi spiazza, ad intuire che dietro ciascuna di queste manifestazioni delle loro paure c’è sempre Pennywise. Ed è sempre Richie, che dalla prima pagina del libro fino all’ultima non riesce a formare una frase senza dire qualche cavolata, che intuisce che Stan, nel suo incontro alla Cisterna con i ragazzi morti, si è riuscito a salvare avendo detto ad alta voce i nomi degli uccelli del suo libro di ornitologia. Per finire è ancora Richie che sa prima di tutti gli altri che Bill è il capo naturale del loro gruppo perché è quello che emana carisma, carattere, forza. Nonostante queste doti indiscutibili osservate nella camera di Georgie mentre la foto prende vita tra le loro mani e quasi li rapisce, capisce che se vorranno affrontare il lupo mannaro al numero 29 di Neibolt Street, nella loro spedizione in coppia sotto la veranda, non se la potranno cavare con mezzucci da niente. Richie insomma, a parte la maschera da pagliaccio che indossa per tutta la vita, così snervante che farebbe innervosire Madre Teresa, è capace di fare anche pensieri profondi e nella parte finale del libro sarà cruciale. Nonostante questo, Richie dà il meglio di sé come rompiscatole durante il pranzo che i Perdenti hanno il giorno in cui si ritrovano tutti adulti nel paese dell’orrore, nel ristorante Giada dell’Oriente. Un pranzo con tanto di biscotti della fortuna con ripieni variegati al gusto di mostri formato finger food. Richie prende di punta soprattutto Eddie e Ben. Eddie perché è un must avercela con lui e poi stuzzica Ben perché nel frattempo è diventato un uomo decisamente affascinante. Nulla a che vedere con Covone Anni Cinquanta. Per la maggior parte di questo pranzo che fa da spartiacque temporale con i due scontri con il pagliaccio, il gruppo rimanda l’ascolto del piano di Mike per sconfiggere It e si rifà del tempo perso. I presenti imparano a ri-conoscersi di nuovo. Sono un po’ confusi, certo, ma stare insieme, ascoltare la vita presente e quella passata, riportare i fatti alla mente e confrontarsi, li aiuta non solo a cementare una volta ancora il loro legame, ma soprattutto a ricordare meglio tutto, incubi inclusi. Verrà anche notato che stranamente nessuno del gruppo ha avuto figli e che i sei dei sette andati via da Derry, sono diventati ricchi. Coincidenze? Chi lo sa…

Così parlò Mike Hanlon.

Dopo lo spiacevolissimo incontro con i mostri nei biscottini della fortuna che nessuno vorrà mai più mangiare, il gruppo riformatosi si mette in moto. Dal 21 Luglio, fino a quel pranzo Pennywise ha già mietuto 9 vittime e nessuno di loro vuole che la cosa vada avanti. Forse sono matti, forse non hanno la minima chance di farcela anche perché il gruppo non è al completo senza Stan, ma sentono di dover provare. Come prima cosa Mike, che ad un certo punto darà prova di una qualche dote di premonizione, propone una passeggiata. Uno dice: cooomeee??? Non si caricano di armi di ogni tipo, di corazze, di lanciafiamme, missili e magari un prete con acqua santa? No. Si fanno una passeggiata a piedi per Derry, ognuno per fatti propri per… per ricordare tutto, per incontrare i loro demoni, il passato e… Pennywise. Difatti quelle che iniziano come semplici camminate si trasformeranno per ciascuno di loro in ore di terrore. Vengono attirati come calamite, o sono loro stessi le calamite, in punti molto specifici di Derry, posti che per ognuno di loro hanno significato qualcosa di importante, come la biblioteca per Ben ad esempio, e si ritrovano in situazioni a dir poco spiacevoli. L’incontro di Bev con la strega, per citarne uno, mi ha fatto stringere lo stomaco per un’intera giornata. Credo che non berrò tè per il resto della mia vita. L’unica cosa carina di tutto questo è che Bill rincontra la mitica Silver e devo ammettere che mi sono commossa. Hai-io Silver! VAAIII! Ho provato anche a dire stanno stretti sotto i letti sette spettri a denti stretti ma niente da fare, non ci riesco. M’intreccio anche a scriverlo, cari coloni miei.

Derry main postcard from IT | Stephen king, Derry, It the clown movie

Derry il centro del mondo.

Non solo i Perdenti si ritrovano a Derry, Maine, Stati Uniti d’America, negli stessi giorni. Arrivano infatti anche altre nostre conoscenze, più o meno contemporaneamente e con motivazioni diametralmente opposte. Alcune innocue, altre altamente pericolose. Arrivano quindi Tom, il meraviglioso maritino di Beverly, che sente molto la mancanza della moglie e vuole approfondire il discorso iniziato la notte della sua partenza, Audry la bella e preoccupata mogliettina di Bill che alla fine al lavoro antepone il marito (o la curiosità di capire effettivamente cosa diamine ci faccia lì l’uomo che ha sposato ma che sente di non conoscer più) ed Henry, l’unico superstite rimasto del trio delle meraviglie, che per l’intera estate del Cinquantasette ha perseguitato praticamente ogni bambino del piccolo paesotto. Audry e Tom (che ha pensato bene di pestare malamente Kay, l’amica di Beverly per farsi dire dove rintracciarla) sono addirittura finiti col dormire in due motel separati da un semplice marciapiede ed Henry, in quella notte così strana al sapore di aspettative, non dorme da solo, ma in compagnia delle tante voci che sente venire dalla Luna. Bene, andiamo a dormire anche noi, cari coloni sperduti, e prepariamoci emotivamente, fisicamente e spiritualmente per la seconda ed ultima parte di quest’opera meravigliosa in cui rivedremo apparire anche la mitica Silver ma, mi chiedo, a parte la felicità di rivederla, a cosa può servire contro It??? Si vedrà, confido nella fantasia del Re che avrà sicuramente qualcosa in serbo, altrimenti non sarebbe Re ma paggetto… per ora non mi resta che augurare lunga vita alle vostre messi, stasera Cagliostro dorme con me. Nel buio si muovono strane forme, sento un penetrante odore di pop corn e zucchero filato e dalle tubature del lavandino del bagno m’è parso di sentire una strana risata, una risata che assomiglia di più a un grido che dice vieni con noi Dolores, vieni, qui galleggiamo tutti

Vostra affezionata,

D.D. Dolores Deschain.

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