fbpx

Uscita per l’inferno | The body | The mist.

Uscita per l’inferno | The body | The mist.

Cari coloni sperduti, lunga vita alle vostre messi.

L’idea della tripla recensione di qualche tempo fa mi è piaciuta così tanto (questa…) che oggi la ripresento con tre nuovi gemelli diversi ovvero Uscita per l’inferno, The body e The mist. Scegliete quella che vi ispira di più e poi magari raccontatela ad un amico. Bene, partiamo col vederle una ad una di queste proposte così differenti, così lontane, eppure così simili se si legge bene tra le righe. Ma sappiamo che per il Re le righe tra cui leggere non sono mai solo bianche o solo nere, nar, bensì contengono un’infinità di sfumature tale che per decifrarle tutte avremmo bisogno dell’acutezza visiva di Octavio, discendente di Polluce, della saga dell’Attraversaspecchi, o dell’occhio magico di Alaster Malocchio Moody, per citare anche la saga di Harry Potter così non scontentiamo nessun fan. Vaya con Dios, si parte!

Ogni tanto si devono ammettere i propri limiti: Uscita per l’inferno mi mancava da leggere tra i libri di King. 

Però ho recuperato e l’ho letto, aye. Sì, è uno dei romanzi pubblicati con il nome di Richard Bachman e se anche voi ogni volta che incontrate Bachman vi chiedete il perché e il per come King ad un certo punto della sua carriera abbia fatto la scelta di usare uno pseudonimo per alcuni dei suoi romanzi, smettete di chiedervelo, sono solo fatti suoi (ah, il Raz Degan d’annata!).

Vi basti sapere che questo libro è stato scritto tra due capolavori come Le notti di Salem e Shining, quindi, non può essere così male… no? Sì, no, forse, vedremo. La storia si apre con la scena di tranquillo avventore in un negozio di armi. Le due cose stridono, ve? Beh ma d’altra parte c’è chi si fa mandare dalla mamma a prendere il latte, chi va a comprare il pane e chi come Barton George Dawes, il nostro uomo, si fa consigliare su pistole e fucili. Se ne sta lì in armeria, il nostro uomo, e con qualche bugia ben piazzata qua e là compra una specie di fucile/bazooka, un pistolone e tutte le munizioni possibili. 

Poi paga e se ne va. Il nostro uomo è uno stimato lavoratore, buon marito e leale capo, gestore della lavanderia Blue Ribbon da vent’anni, impersonando l’americano medio. Un tipo tranquillo come molti. Eppure scatta qualcosa nel cervello del nostro uomo. Avete presente Michael Douglas in Un giorno di ordinaria follia? Ecco, solo che la follia dura più di un giorno. D’altronde se non sei fuori come un balcone non  compri un bazooka per andare a caccia di farfalle e certamente non senti in testa una voce che per zittirla  la devi spegnere un relé, clic.

Addentrandoci nella lettura capiremo almeno in parte le motivazioni che fanno agire il nostro uomo a volte come George, a volte come Fred, a volte come un terzo tipo che neanche lui conosce. Clic. Cosa sta succedendo? Cosa lo sconvolge tanto? Niente di così grave, arriva solo il nuovo tratto autostradale, si spiana tutto, si fanno smammare residenti, commercianti e uccellini del parco, promesse di prosperità, pacche sulle spalle, strette di mano tra quelli del comune e quelli della società autostrade, indennizzi vari ed eventuali e tanti saluti alla vita che si è condotta in quella parte di mondo fino a poco tempo prima dell’arrivo dei bulldozer. Il progresso non si può certo fermare e se sotto le ruote delle ruspe ci finiscono tritati anche i cuori della gente troppo sentimentale, poco male. I cuori di quelli più forti e pratici, invece, possono battere anche a qualche centinaia di chilometri di distanza in un’altra casa, in un nuovo posto. Forse quei cuori battono perfino meglio, no?. Beh no. Non è così per tutti. Qualcuno tra la folla quel pezzo di mondo con quello che c’è dentro non lo vuole lasciare. Perché lo ama. Perché qualcosa deve pure aver significato. Persino i vicini strambi devono aver avuto un senso. Questo pensa George. Ed è questo che colpisce più di tutto In Uscita per l’inferno: un secondo livello di lettura al di là della trama principale. Il protagonista intreccia le sue azioni con quelle degli altri personaggi, sì, ma al contempo si avverte un profondo senso di malinconia che agisce solo sul livello emotivo di George ed il mondo ne è fuori. George che è solo contro tutti. George che si strugge per il passato, quando era capace di restare appeso a venticinque metri di altezza col sedere al vento per ridipingere una ciminiera e racimolare i soldi per un televisore, felice di farlo. George al tempo stesso è l’antieroe e l’eroe romantico, disperato, che invece di piangere su una scogliera schiaffeggiata dal vento compra munizioni per far saltare… cosa? Cosa ci vuoi fare con quell’artiglieria pesante George? Non sono cose che ti riguardano Fred. E invece sì George, mi riguardano. Zitto Fred, non impicciarti. Clic. Quest’uomo inizia così un viaggio in un incubo che non lo visita solo di notte, racchiudendo in sé fin troppo chiaramente un senso di preannunciata tragedia. Clic. Clic. Clic. Clicccccc… Ci prova Fred, questa specie di Grillo Parlante che non ha nulla di fiabesco e neanche tanto di coscienzioso a chiedere a George com’è che ha comprato quelle armi prima e tutti quel candelotti di dinamite dopo, ma il proprietario ufficiale del cervello non gli risponde. E non risponde neanche alle domande sul perché non ha trovato una casa nuova per lui e sua moglie o una sede alternativa per la lavanderia quando entrambe le cose erano fattibili. Non spiega come mai ha raccontato balle a tutti dicendo di aver sistemato i vari casini né perché insista nello sprofondare nel nulla. George non dà retta a nessuno, continua con le menzogne, lascia passare i giorni e pensa solo al fucile/bazooka e al pistolone con tanto di munizioni che abbatterebbero un aereo. Ovviamente non si può mentire in eterno.

Le balle vengono a galla e in due mesi il nostro uomo perde tutto, persino quel rompiscatole di Fred non gli parla più. Ma almeno ho le armi, la benzina e tanti fiammiferi in casa e se riesco a combinare l’ultimo affare sarò pronto, si dice. Pronto per cosa?. E a questo punto pare che il libro parta per un viaggio allucinogeno di azioni sconsiderate, compravendite assurde, personaggi strambi, pericolosi, momenti (pochissimi) di lucidità alternati a (tantissimi) giornate intere di pazzia mentre il protagonista cavalca l’onda dello squilibrio a volte beandosene, a volte temendola. Finché non viene del tutto travolto.

 È il 25 Dicembre 1973 quando tocca il punto più basso della sua disperazione, buon Natale davvero. Pensa di non poter scendere più in basso ma si deve ricredere i giorni successivi perché più in basso ci può scendere eccome, e di lì George continua a meravigliarsi di quanto il fondo sia sempre più fondo. Tanto che probabilmente a forza di scendere e scendere ancora di più, si sarà lasciato alle spalle anche il centro della Terra. Ecco, cari coloni sperduti, è difficile a volte tenere testa alla disperazione che si respira in questo libro. Ogni tanto ci si deve prendere una pausa. Chiudere. Fare altro.

In questa luce Uscita per l’inferno ci è parso uno dei lavori più spaventosi di King perché la battaglia che si combatte è una battaglia subdola, atroce, è la storia del disagio di un uomo che perde i contatti con gli affetti, la realtà delle cose, le persone. È la scomparsa della sanità mentale che ti lascia e se ne va, senza nemmeno mandarti una cartolina. Tanti saluti bello. 

Uscita per l’inferno è la solitudine atterrente dell’essere rimasto senza neanche un piccolo, minuscolo appiglio col mondo reale, con la vita, con l’amore di un figlio, con la propria casa. Uscita per l’inferno è il terrore di sapere che qualsiasi sarà l’epilogo, non sarà di certo condito di abbracci o pacche sulle spalle. 

Uscita per l’inferno è la ripetizione di giorni vuoti e senza scopo che nel loro ripetersi fotocopia ti stendono un velo sugli occhi mentre ti fregano e ti conducono dritto dritto sul precipizio. E tu non te ne accorgi fino a quando stai già saltando. 

Tirando le somme l’inferno che si cita nel titolo non può che essere quello personale. Il mondo interiore di un uomo che ad un certo punto si sfalda imboccando una via senza ritorno, a causa soprattutto di una tragedia che prende la forma di una piccola noce all’inizio e in seguito di un’autostrada maledetta. Quindi non sarà il classico romanzo horror, ma se non è terrore tutto questo… aye. Leggetelo e giudicatelo come volete, ognuno è padrone dei propri gusti e pareri, per fortuna. 

Quindi lunga vita alle vostre messi, lunghi giorni e piacevoli notti e non dimenticate il volto di vostro padre. Ecco. Le ho dette tutte.


L’estate, più di tutti, appartiene ai bambini. 

È come se fosse loro per diritto divino. È durante l’estate dell’infanzia che si vivono avventure meravigliose o terrificanti. Che si scoprono i segreti più incredibili o tremendi. Che si dorme in tenda per controllare la casa che il nostro amico giura sia stregata o per vedere le stelle cadenti e affidargli un desiderio. Ora, vi sembrerà strano, ma anche King è stato bambino e alle estati e ai loro giovanissimi protagonisti ha affidato tante storie. Quella di oggi, The body, ha debuttato nei primi anni Ottanta nella raccolta Stagioni diverse (perché i racconti nel libro sono quattro, come le stagioni, aye).

Per chi fosse interessato è del 1986 il film che ne è stato tratto, Stand by me – Ricordo di un estate.

Curiosità
The body è ispirato da un trauma che Stephen King stesso ha vissuto quando era molto piccolo e vide con i suoi occhi un amico morire. Ci dispiace ora per allora. 

Tornando a The body, i protagonisti del tutto sono quattro dodicenni di Castle Rock che si avviano ad abbandonare l’infanzia esattamente come quell’estate che stanno vivendo si avvia al termine.

 

La storia ci mostra l’America degli Anni Sessanta dei film di John Wayne e si apre in una specie di club messo tra i rami di un grande olmo mentre fa un caldo da morire. I nostri eroi sono ricchi della sola fantasia, strampalati, disagiati e capaci di fare quelle che qui a Gilead chiamiamo “le mattità“, ovvero bravate al limite del suicidio, tipo salire su un pino a quaranta metri di altezza solo per vedere se la punta marcia regge ed essere ripresi in qualche modo prima di schiantarsi al suolo. O anche schivare autobus e treni all’ultimo secondo. 

Sono outsider della società i nostri eroi, anime alla deriva non per colpa loro ma perché alla deriva ci vanno un po’ tutti quelli che li circondano e li tirano sotto. Hanno storie molto difficili alle spalle e famiglie più o meno dissestate, più più che meno. Ma si vogliono bene di quel bene speciale che solo l’amicizia della fanciullezza può dare e nonostante la piena consapevolezza di quanto siano strambi tutti quanti, non se ne fanno certo un cruccio. La nostra attenzione, guardando il gruppetto giocare a carte all’interno del club, si sofferma su Gordon detto Gordie, che in futuro diventerà uno scrittore e sarà proprio lui a raccontare la storia, ma al momento è impegnato a togliersi di dosso un mantello dell’invisibilità che ha ben poco a che fare con quello dell’Harry Potter citato all’inizio. 

Questo mantello qui, che lo rende invisibile agli occhi dei suoi genitori, non è una cosa figa e non è per niente un oggetto magico. Soprattutto questo mantello qui è bello pesante ed ha cominciato ad accumulare chili su chili dalla morte (incidente stradale) di suo fratello maggiore Denny. Beh, in realtà da prima, ma la dipartita del fratello perfetto, diligente e bravo su tutto, diciamo che gli ha dato il colpo di grazia, aggiungendo una quintalata di peso ulteriore sulle spalle tanto che il nostro G. pensa, magari non se lo vuole dire ad alta voce ma lo pensa, che a morire sia stato il figlio sbagliato

Peggio ancora, è convinto che lo credano fortemente anche i suoi genitori e non ci sentiamo di dargli tutti i torti. Una madre che c’è e non c’è, a intermittenza come le lampadine che sfarfallano prima di spegnersi del tutto, un padre che annaffia la parte di giardino già morta ed affoga l’altra sotto ettolitri d’acqua.

 

In un quadro come questo succede che in un pomeriggio troppo caldo per fare qualsiasi cosa, incluso respirare, Gordie e la sua banda vivono l’ora più torrida nel modo consueto, sonnecchiando, ridendo, giochicchiando e chiacchierando dei massimi sistemi quando irrompe nel club Vern. Vern come al solito è stato sotto il portico a scavare alla ricerca di monete che non è neanche più convinto lui stesso di averci nascosto e sconvolge in un colpo solo la giornata, l’estate e le tre minute esistenze che ha di fronte con una notizia bomba. A corto di fiato Vern annuncia agli amici che è venuto a sapere la posizione del cadavere del ragazzino scomparso qualche tempo prima nel loro paese. Gesù, davvero?

Secondi di silenzio sbigottito. Chris, il più grande e il più duro, Gordie l’invisibile e Teddy, lo sciroccato del gruppo con un padre che per passare il tempo gli brucia le orecchie sulla stufa rovente, ci mettono poco meno di qualche attimo per decidere che devono a tutti i costi andare a vedere il cadavere di persona e se possibile prendersi il merito della scoperta. Per diventare un minimo eroi agli occhi dei propri genitori, del paese che li ghettizza, della vita che li prende costantemente a calci. La banda dei quattro così si mette in marcia seguendo le rotaie della ferrovia, sotto il sole a picco di mezzogiorno.

 

Con il sudore che gronda ed il cuore che batte veloce parte la storia vera e propria di questo bel libretto, intanto i quattro moschettieri fanno subito casino portandosi dietro una pistola bella grossa, omaggio di Chris alla causa. Un dodicenne che ha libero accesso ad un’arma da fuoco in casa fa capire molte cose. Nonostante i dubbi iniziali, neanche tanto convinti, la banda decide di tenerla, in fondo tra boschi, orsi e quant’altro, meglio essere previdenti, si dicono. E poi non siamo mica pappemolli che si mettono a frignare o fare troppe storie, no, certo che no, aggiungono. 

Sono le femminucce che fanno storie per tutto, mica noi. Si rispondono. Galvanizzati dall’arma ignorano anche l’ombra del presagio di malasorte dato dalla croce nera (ovvero tirare quattro monetine, una a testa, per fare la conta ed avere come risultato quattro croci in contemporanea) e vanno avanti. In appena qualche ora di cammino i quattro moschettieri vivono diverse avventure/sventure come quella col negoziante truffatore, col fantomatico cane Chopper, o come la corsa sui binari per schivare il treno sul ponte. E mentre vivono tutto questo noi scopriamo le loro paure, le loro debolezze, come se quello che accade nella realtà del viaggio che stanno facendo, sia il riflesso del viaggio che si trovano a vivere nel loro io. L’essere quasi uccisi dai propri padri ma non riuscire comunque a staccarsene, aver paura dell’orco nascosto sotto il letto o del fantasma del ragazzo morto che vanno a visitare, sentire di non appartenere alla propria famiglia, provare a tener testa a un mondo che se ne frega che tu stia bene o no ed avvertire un senso di vuoto così profondo che hai paura di annegarci dentro.

 

Questo racconto è anche l’addio ad una parte della vita che non tornerà più,  è l’iniziazione alla porzione di esistenza che include le responsabilità e il provare a far parte di qualcosa di più grande della semplice cameretta dove siamo cresciuti. Tutto questo però include rinunce, battaglie e compromessi. 

Un compromesso per tutti? La perdita della capacità di vedere cose meravigliose piuttosto che normalissime e che tramuta per esempio il cane del proprietario dello sfascio, cerbero a due teste, mangiatore di uomini e bambini in un semplice cagnetto che abbaia troppo.

E difatti anche noi avvertiamo la stessa malinconia dei ragazzi, una confortevole malinconia, come si legge nel libro. Perché sappiamo che arrivati all’ultima pagina l’avventura sarà terminata e con essa le emozioni che ci ha regalato. Dunque approfittiamo per assaporare ogni secondo delle loro risate e della loro amicizia, dei loro hamburger mangiati mezzi crudi, delle sigarette rubate, fumate attorno al fuoco e per questo ancora più buone, dei loro timori per le urla nel bosco, del loro coraggio di tener testa ai ragazzi grandi essendo perfettamente coscienti che gliela faranno pagare comunque, della loro incoscienza nel maneggiare un’arma. Tutto questo prima che arrivi quel Settembre che li porterà a dividersi per sempre e diventare solo dei conoscenti che una volta hanno condiviso un’avventura. Davvero? L’abbiamo fatto? Non ricordo più… Così ci soffermiamo ancora su “Ero vivo e felice di esserlo. Mi pareva che ogni cosa spiccasse con una tenerezza speciale, e anche se non avrei potuto esprimerlo a parole, pensavo che non mi importasse – forse quel senso di tenerezza era qualcosa che volevo tenere per me”. E ringraziamo Gordie, Chris, Teddy e Vern per averci fatto una breve ma bella compagnia ed averci ricordato com’è avere amici veri e fidati, perché ormai, noi dodici anni non li abbiamo più. Vorremmo poter spiegare che King non è solo lo scrittore dell’orrore che racconta di ragazze che compiono stragi con poteri telecinetici. 

Non è solo quello dei segnali che passano per i cellulari e fanno regredire le persone a barbari mangia uomini o quello degli aerei che scompaiono in volo in una dimensione parallela. King è anche questo racconto e tanti altri racconti come questo. Vorremmo proprio trovare le parole giuste… ma si sa che “le cose più importanti sono le più difficili da dire, perché le parole le rimpiccioliscono”

Quindi lunga vita alle vostre messi e non dimenticate il volto di vostro padre (né di leggere la terza, di questa tripletta di recensioni…)

Il nodo da sciogliere nel prossimo millennio sarà: ma come si traduce “mist”, “nebbia” o “foschia”?

Chiedo soccorso a traduttori e traduttrici di tutto il mondo per togliermi questo dubbio. Nella mia edizione di Scheletri, da dove ho preso il racconto, è tradotto con foschia, nei vari adattamenti televisivi e del grande schermo invece è nebbia

Ciò detto citiamo la serie The mist di 10 puntate del 2017 firmata Christian Torpe che però ha davvero poco del racconto, diciamo giusto la nebbia.

 Va un po’ (di poco) meglio per il film del 2007 di Frank Darabont, almeno come pertinenza con le pagine scritte. Da fan come sono di TWD devo citare la presenza dell’attrice Laurie Holden nel film del 2007. 

Come chi è Laurie Holden!? È l’indimenticabile Andrea delle prime stagioni di The Walking Dead, prime stagioni memorabili ed ahimè mai più pareggiate. Come mai abbiano fatto uscire di scena il personaggio di Andrea che tanto piaceva a tutti è un altro mistero al quale risponderanno i posteri. Chissà se la Holden sapeva che la signora col taglio di capelli cortissimo che si vede per tipo dieci secondi all’inizio del film e che va via dal supermercato praticamente schifata da tutti, l’attrice Melissa McBride, sarebbe diventata la Carol proprio del suo stesso TWD? Quando si dicono le coincidenze…

Ancora una chicca a proposito del film del 2007, avete capito cosa sta dipingendo il protagonista nella scena di apertura durante il temporale? Forza che lo sapete, su. Beh, devo dire che mi sono emozionata e non poco per quest’omaggio al Re. Peccato poi per quella sporca burba dell’albero che ha distrutto tutto, per dirla come Annie Wilkes 

Shocked by The Mist | Dan Birlew

Una scena di The Mist (2007) in cui Thomas Jane sta dipingendo s Roland Deschain

Un’ultima cosa, questa pellicola ha il finale più irritante che la storia del cinema conosca, che ovviamente non ha nulla a che fare col finale del racconto. 

Ma tanto non è un problema visto che dubito entrerà mai nella storia del cinematografo con i mostri presi pari pari da Dragon Ball ai tempi di Goku bambino, con tanto di coda da scimmietta. Ma veniamo alla nebbia, alla foschia… a The mist.

Apriamo il libro e cominciamo a leggere della torrida estate a Long Lake, nel Maine Occidentale. 

Il protagonista David Drayton, artista talentuoso e conosciuto illustratore, racconta quello che è accaduto a mo’ di ricordo/testimonianza ed è lui che ci farà compagnia fino all’ultima riga. David mi dice che fa proprio caldo, che l’aria al momento è immota e che guardando sul lago ha una strana sensazione addosso. Vede avvicinarsi grandissime nubi temporalesche e qualcosa nella mente gli suggerisce che non sarà una nottata tranquilla. Ha ragione, lui e la sua famiglia non passeranno affatto una nottata tranquilla, anzi, quella che ci si appresta a vivere a Bridgton è una delle peggiori tempeste degli ultimi anni. In particolare la tempesta lascerà in giro il profumo metallico dei fatti tremendi che seguiranno. I timori di David prendono forma con l’arrivo di un ciclone che li fa rifugiare in cantina dalla quale la piccola famiglia sentirà il rumore della devastazione portata dai venti terrificanti che si abbattono sulla casa, sul lago e su Bridgton stessa. La mattina dopo si contano i danni. 

Un po’ confusi, un po’ stanchi, ancora spaventati e con gli occhi gonfi, gli abitanti del posto si comportano da brave formiche e cercano di rimettere in sesto le proprie case e soprattutto decidono tutti di andare a fare provviste nel vicino supermercato. 

Anche D. D. (D. D. come me!), spinto dalla moglie, si unisce al gruppo degli assennati, portandosi con sé figlio e tale Brent, che non gli è neanche simpatico. Brutta scelta questa David, ma ti pare una buona idea farsi accompagnare dallo stesso uomo che hai denunciato per dispute tra vicini? Ed ecco qui, poco prima di partire, che la nebbia fa capolino nel racconto. Appare subito una nebbia particolare, in primis perché sul lago non s’era mai vista, e poi perché taglia di netto i confini che si lascia alle spalle come se fosse fatta di una qualche materia densa, come se avesse un corpo ben definito, una vita propria. Ma al momento è lontana e così, sebbene tutti l’abbiano avvistata, non se ne curano. Non interiorizzano quello che forse l’anima sta già gridando e vanno avanti con le loro cose. In queste prime pagine, cari coloni, si respira veramente una sensazione di attesa. Si sente che la tempesta, l’uragano, perfino la coda alla cassa del supermercato, sono anticipazioni di qualcosa che deve ancora venire. 

Soprattutto David si porta dietro questa specie di percezione e non abbocca alla facciata di apparente calma che vede in giro. Ma nonostante tutto, nonostante il quinto senso e mezzo alla Dylan Dog gli stia gridando un messaggio, parte in macchina con figlio e vicino, salutando la moglie che non rivedrà più.

Accade tutto al supermercato. Ci vuole tempo affinché la gente si svegli, affinché reagisca al torpore nel quale sembra essere caduta, perché codifichi i segnali d’allarme ricevuti, l’uragano, la tempesta, la strana nebbia sul lago, l’esercito presente per le strade in modo anomalo, le sirene dei pompieri che non smettono di suonare, ma, alla fine, il mistero piomba addosso ai presenti nel supermercato e non li abbandonerà più. In un escalation di terrore, sorpresa e tenebre, che nessuno aveva preventivato mentre sceglieva una cassa di birra o il ketchup per l’hamburger. E’ questo che ci fa paura adesso, il pensiero che “qualcosa” di terribile possa irrompere nella quotidianità e modificare per sempre le azioni che si compiono. I protagonisti ci sono tutti, inclusi il buon Ollie, il pessimo Brown e la signora Carmody, la fanatica religiosa esaltata di turno che ci ricorda un pochino Margaret White di Carrie, che non è sicuramente un bene avere nella compagnia in una situazione di altissimo stress e pericolo. Ci sembra di conoscerle tutte quelle facce perché potrebbero appartenere al vicino di casa, alla vecchia stramba presente in ogni abitato, alla giovane cassiera che vediamo tutti i gironi o allo sconosciuto in fila con noi che aspetta di pagare. Così, quando un uomo si precipita dentro dall’esterno, sporco di sangue, gridando che c’è qualcosa che uccide nella nebbia, ci pare di vedergliela ancora attaccata un po’ addosso, quella nebbia. Sulla spalla. Come un alone biancastro che non fa luce ma è visibile, come l’alito che si condensa al contatto con l’aria fredda

Quasi simultaneamente all’ingresso dell’uomo che grida che nella nebbia c’è qualcosa che uccide, ecco che va via la corrente elettrica. Come a sottolineare il fatto. Allo stesso modo sembra che qualcuno abbia azionato un interruttore nella testa della gente che comincia ad agitarsi. Ovviamente più il tempo passa, più le persone cominciano quasi a regredire, ad imbarbarirsi, a perdere la cognizione di quel che è giusto e quello che è sbagliato.

Più vedremo farsi difficile la situazione ed andare verso la modalità sopravvivenza, che include ad esempio razionare il cibo, non avere luce, dormire per terra, non avere idea di che tipo di pericolo si corra ma avvertirlo lo stesso, più la gente si dividerà, proverà a litigare invece che confrontarsi, mettersi i bastoni tra le ruote invece che aiutarsi. Nel corso del racconto il supermercato diventerà una micro società in guerra e sicuramente non una società illuminata. 

Sono visibili tutti i tipi di persone in questo gruppo di conviventi forzati e si nota l’astio verso chi ha una diversa impostazione religiosa, l’acrimonia verso chi ha uno status economico molto più alto o molto più basso del proprio, il rancore verso le differenze sociali e culturali, la gelosia in generale. Ma quello che è ancora più chiaro è che la paura crescente, il terrore degli attacchi da fuori, di un qualcosa di grande ed ingestibile che ha deciso di banchettare con te, non caccia certo il meglio dagli animi. Non spinge a far fronte comune. 

La prima vera svolta di colore prettamente horror nel racconto che finora è stato di suspence si ha quando David decide di andare in una stanzetta nel magazzino a recuperare qualcosa per coprire il figlio che dorme sdraiato sul pavimento. Sta lì che cerca un po’ ovunque quando, nel buio, appena dopo aver spento il generatore di emergenza che si stava praticamente sciogliendo, si accorge di un rumore. Un rumore di un qualcosa che gratta, che graffia, che si muove lungo la saracinesca del magazzino, qualcosa di enorme che vuole entrare, vuole aprirsi un varco. Terrorizzato torna dagli altri e li avvisa di quello che ha sentito ma il suo messaggio viene largamente frainteso, anzi, lo prendono proprio per pazzo

In cinque tornano nella stanza per controllare ma ne fanno ritorno solo in quattro, il più giovane di loro viene trascinato via dai tentacoli e diciamo che la cosa convince almeno i presenti del gruppo. Si apriranno discussioni, si metterà ancora in dubbio la parola degli uomini nonostante dicano adesso tutti la stessa cosa ed un gruppo di irriducibili miscredenti deciderà di uscire comunque dal supermercato, nonostante David li implori di non farlo. Neanche loro faranno più ritorno e a questo punto la signora Carmody comincia a parlare di giudizio divino, sacrificio di sangue, punizione da parte del Signore che ha mandato i cavalieri dell’Apocalisse per i loro peccati. E non c’è da escludere che a breve la signora avrà il suo gruppo di piccoli fan. Insomma la situazione è precipitata sotto ogni punto di vista.

Sembra sia passato un mese intero da quando tutto è iniziato mentre a conti fatti il gruppo bloccato nel supermercato deve ancora affrontare la sua prima notte. Le persone si sono organizzate alla meglio, hanno cercato di proteggere i grandi finestroni in vetro del posto, si sono divisi in gruppi, chi cucina polli, chi prega, chi si ubriaca, chi è in stato catatonico e chi è in attesa. David in cuor suo, nonostante abbia cercato di organizzare il posto per proteggerlo issando ad esempio enormi sacchi di concime alle finestre o preparando torce con benzina e spazzoloni, sa bene che la taglia degli esseri che si aggirano là fuori non è certo quella di piccoli pet. 

Ed ha ragione. Poco dopo le otto di sera infatti arriva il vero attacco al supermercato da parte di animali volanti disgustosi che irrompono dentro e ci mettono tre secondi a distruggere le vetrate nonostante i rinforzi e danno un bel da fare a tutti. I minuti sono concitati, la lotta dura ma alla fine, non si sa bene come, l’attacco viene respinto. Ollie però non festeggia, ha un’espressione molto strana e riporta David nel magazzino dove poche ore prima hanno avuto l’incontro con i tentacoli. Questa volta la vista terrificante che caccia un urlo di gola all’artista non è per colpa né di un mostro né di un tentacolo. Due giovani militari della base lì vicina rimasti intrappolati con loro si sono impiccati. Ovviamente non si tratta di un normale suicidio, per quanto un suicidio possa essere normale. Sembra di più un non aver resistito al senso di colpa, sembra un grido di scusa, una prova di colpevolezza. 

E le ipotesi paventate da quella mattina, tra le mille probabili ed improbabili, concrete e fantasiose, portano a pensare che in quella strana situazione di disastro ci sia di mezzo lo zampino dell’Uomo. Che evidentemente si è messo a giocare con qualcosa di troppo più grande di lui, che è sfuggito al controllo ed ha preso il sopravvento. Niente Armageddon quindi, o per lo meno non per motivazioni mistiche o religiose. Se è arrivata la fine del mondo è colpa della scelleratezza umana. Forse nella base militare si sono spinti troppo in avanti con i giochetti a impersonare Dio o la Natura? Forse la tempesta violentissima ha creato qualche incidente alla base aprendo un portale su un’altra dimensione? David crede di sì. E non solo lui. Il problema però è che più passa il tempo più quella matta della Carmody da vecchia signora eccentrica, mezza santona, mezza fattucchiera, con una spolverata di erborista e rabdomante, si trasforma in una vera e propria fanatica religiosa che conquista una folla nutrita di credenti e che, a seguito dell’ennesima spedizione andata a vuoto e anche malamente nella vicina farmacia da parte del gruppetto che appoggia David, decide di, udite udite, fare un sacrificio umano per tenersi buone le creature mostruose venute a portare morte sulla terra di peccatori.

Da qui in poi la situazione diventa davvero bollente e il racconto, partito piano piano, prende sempre più forza e velocità. Seppur nel breve spazio di neanche centoventi pagine nel libro e quattro giorni nella storia, ne vediamo tante di cose accadere, fino alla conclusione. La conclusione che forse non termina, forse qualcosa accadrà ancora, ma cosa, questo, non ci è dato sapere se non nella nostra fantasia. A me piace pensare che le creature mostruose si siano ritirate insieme alla nebbia e che chi ha commesso l’errore di aprire un portale su una dimensione diversa dalla nostra, lo richiuda pure, a doppia mandata. Poi certo può anche aver sempre avuto ragione la matta Carmody e magari la nebbia era stata mandata davvero da un qualche Dio arrabbiato con noi.

Beh, di motivi per essere arrabbiato col genere umano, Dio, la Natura, il Destino, l’Universo, o Chi so io, ne avrebbe. Intanto, tengo d’occhio il lago e vi saluto caramente augurandovi lunghi giorni e piacevoli notti, stasera Cagliostro dorme con me. Nel buio si muovono tentacoli.

Vostra affezionatissima,

D.D.

Dolores Deschain.

Iscriviti al bollettino di Gilead, una mail al mese. Non di più.

* obbligatorio

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *