A Volte Ritornano
Cari coloni sperduti, lunghi giorni e piacevoli notti.
A volte ritornano, no, non i politici, o meglio, quelli ritornano sempre purtroppo, in questo caso a tornare invece sono i venti racconti del libro di cui vorrei parlarvi oggi.
Molto da dire su questo libretto, un gioiellino datato 1978 eppure tanto attuale, preso infinite volte come ispirazione per film e serie tv. L’ultima serie in ordine cronologico è quella che uscirà a breve a cura della Epix e che conterà dieci episodi per il riadattamento televisivo di Jerusalem’s Lot (che apre le narrazioni del libretto) con il premio Oscar per l’indimenticabile film Il pianista, Adrien Brody. Venti racconti dunque che parlano di Baubau, di virus sterminatori della popolazione umana tutta (eh, aredajie), soldatini giocattolo che lanciano vere bome termonucleari, bambini che ammazzano gente nei campi di grano e Stephen King solo sa cos’altro. Troverete il terrore raccontato in molteplici e mutevoli forme, forme anche bizzarre, ironiche o davvero angoscianti, insomma di tutto un po’, come le Caramelle Tutti i Gusti Più Uno di Harry Potter.
Una piccola perla questo libro, che ancora una volta ribadisce a gran voce che i racconti non fanno parte del campionato di Serie B della letteratura e che anzi, hanno una forza evocativa ed emotiva a volte più marcata dei cugini famosi di ottocento pagine. E fatemi dire un’ultima cosa prima di iniziare: leggete l’introduzione e la prefazione. Sono interessanti, ironiche, ma soprattutto partono dal soggettivo per poi fare un discorso generale sul perché e per come si scelga di fare della scrittura il proprio mestiere. Ecco. Se poi siete di quelli che saltano a piè pari le prefazioni proprio come missione nella vita, va beh, andate d’emblée al primo racconto, o al secondo, o al ventunesimo che non esiste, ma magari anche sì… insomma, così è se vi pare.
Qui sotto troverete un menù navigabile con le impressioni di Dolores. Basterà cliccare sul titolo, et voilà.
Com’è questo racconto? Pauroso, spaventoso, cupo, tremendo, agghiacciante, lugubre e pure terrificante. Ho reso l’idea? Già il titolo in sé mi riporta agli occhi e al cuore ricordi molto vividi, ovviamente mi riferisco al capolavoro incontrastato del Re, Le notti di Salem, poi me lo sono ritrovato anche scritto, il racconto dico, in forma epistolare come una delle pietre miliari della letteratura horror di tutti i tempi che narra la storia di un certo Conte Dracula, scritta da un Tale Signor Qualcuno Bram Stocker, per niente famoso. La forma epistolare non mi piace come stile di scrittura per un romanzo ma per queste due volte sole posso fare un’eccezione. Giusto per King e Stocker, mbé. Venendo a noi cari coloni, le lettere che tracciano la storia di Jerusalem’s Lot sono scritte da un Certo Charles che si trasferisce in una casa di famiglia, la famiglia Boone, per scrivere un libro ed avere tutta la privacy necessaria per farlo. Senonché il Certo Charles non ha fatto i conti né con la casa stessa, né con il paese lì vicino, né tantomeno con il fatto che per una volta le voci sulla dimora e sull’abitato ora disabitato sono vere, verissime, ma proprio verità pura! Indovinate come si chiama il paese? J.Lo. No, non Jennifer Lopez, ma Jerusalem’s Lot. Le due cose, casa e paese, sono le più infestate, maledette, sfortunate, intrise di forze maligne che l’intero territorio americano possa vantare. E se sulle prime il nostro Certo Charles si fa beffa dei commenti che sente a riguardo ed etichetta i membri della comunità vicina come zotici, ignoranti, creduloni e sempliciotti, ben presto dovrà ricredersi su tutta la linea. Ma proprio su tutta tutta tutta la linea! Le pagine di questa storia mi hanno fatto perdere più di una notte di sonno, lo confesso, per l’effetto eco che hanno generato a distanza di giorni. E va bene che dormo poco di mio, ma stare sveglia e guardarsi video di gatti insieme al mio piccolo Cagliostro è una cosa, stare con gli occhi sbarrati e sentire rumori dietro i muri, lamenti e risatine perverse venire da dietro la porta del bagno o vedere l’anta dell’armadio che si apre, impercettibilmente ma si apre, è tutt’altro fatto. Ambientando la storia nel 1850 poi ed utilizzando una forma stilistica vintage, King aumenta a livelli esponenziali il terrore che si respira per l’intero racconto. Un’atmosfera densa di disagio che accompagna per ciascuna delle pagine e così ben descritta e delineata che per tutto il tempo mi sono immaginata questo galantuomo serioso e tutto d’un pezzo, aggirarsi per casa con una piccola lanterna col suo fedele segretario tuttofare, che comincia a vedere le sue certezze sgretolarsi pian piano. Eccolo Certo Charles, gli occhi cerchiati dalla paura e dall’insonnia, con in mano un attizzatoio del fuoco, che apre la botola della cantina e va a constatare di aver piazzato il letto su una sorta di alveare degli orrori. Carlo, ascolta Dolores tua, te ne devi andà come ti è stato consigliato, ma tu niente, capoccione duro, vuoi per forza toccare con mano! Credetemi se vi dico che quello che toccherà e vedrà, non gli piacerà affatto. Poi accade una cosa che spiazza, dopo le disavventure ambientate nella metà dell’Ottocento con chiese sconsacrate, rituali empi, sussurratori putridi che escono dal pavimento e scoperte terribili, si fa un salto temporale in avanti di un centinaio d’anni e passa per scoprire il finale della storia che secondo me non gli fa onore, ma per i finali dibattuti King è famoso tanto quanto per i libri stessi.
Il titolo promette bene, mi dico, iniziando con la prima riga, il turno di notte fa paura già da solo. Se siete claustrofobici e non vi piacciono i topi queste non sono pagine che fanno per voi. Ah, ci sono anche i pipistrelli che, citando un protagonista, cosa sono alla fine se non l’aviazione della famiglia dei roditori? Mi sono quindi ritrovata in una filanda, di notte, a Gates Falls nel Maine, e al tempo stesso a casa mia, a Gilead, a controllare minuziosamente ogni stanza, soffitto o pertugio, per accertarmi che fosse libero da nidi di ratti e affini. Non è stato bello, fortuna che Cagliostro è un bravo cacciatore ed ha sempre fame. Dunque questa filanda si deve svuotare e con un po’ di organizzazione in più e braccia pronte ai doppi turni si potrebbe anche fare se non fosse che la filanda stessa nasconde nella sua parte più antica dei roditori che sono saliti di livello nella scala evolutiva e sono diventati veri e propri mostri blobbosi. Ajvoja a mettere veleno qua e la’, a spargere qualsiasi tipo di sostanza nociva e armarsi di pale, trappole, torce e bazooka. Questi topolini hanno poco a che vedere con Mickey Mouse e si pappano gran parte della squadra del turno di notte che, siccome fa paura già da solo come dice il titolo, se non sei un panettiere, meglio evitare.
Probabilmente è così che il mondo finirà, o meglio, l’Umanità. Sterminata da un virus mortale, che sia questo alieno, sintetico o animale. Lo dico subito, questo racconto non mi è piaciuto. Non è scattato l’affetto verso i protagonisti né la compassione per le loro vicissitudini nonostante si legga di quello che potrebbe essere l’ultimo gruppo di ragazzi vivi al mondo per colpa del terribile A6, il virus sterminatore di uomini. I ragazzi sono riuniti su una spiaggia e fumano, bevono, fanno sesso, si deprimono, impazziscono, provano a non deprimersi e non impazzire, gestendo autodiagnosi in cerca dei primi segni rivelatori della malattia. Punto. Non c’è di più. Nonostante tutto, però, non posso biasimarli, d’altra parte cosa si può fare sul finire di un Agosto dell’ultima estate di sempre?
Quando vi fischia l’orecchio vi stanno nominando, quando vi prude la mano meglio dare un’occhiata che non vi cicci fuori un occhio o qualche bocca aliena. Fantascienza mista ad horror ed ecco che l’astronauta Arthur passa dall’essere uno che si becca la medaglia d’onore per i suoi viaggi interstellari ad un corriere di alieni che si becca pure, appunto, gli alieni. Come? Beh conoscete la serie anime di qualche anno fa Kiseiju? Quella dove il ragazzo va in giro con una mano dalla quale spuntano occhi e bocche dell’esserino che gli è entrato in corpo? Più o meno così. Solo che per Artù che non è re, gli esserini non sono amichevoli e non vogliono aiutarlo, anzi, lo manipolano a tal punto che lo soggiogano e gli fanno uccidere un ragazzo. Non volendo finire i suoi giorni come strumento di questi esseri che hanno preso possesso di sé quasi del tutto, l’ex viaggiatore stellare prende una decisione drastica: amputarsi le mani. Tolto il dente tolto il dolore insomma. La cosa, a parte il fastidio degli uncini che non sono proprio il massimo della praticità, pare funzionare per qualche anno. Se non fosse che forse non ha amputato abbastanza, doveva andare un po’ più su come l’uselin de la comare, perché dopo circa sette anni…
Ora, avrebbe dovuto farmi più paura la storia sull’estinzione di massa che sulla stiropiegatrice rapida di una lavanderia, ma non è così. E forse questo è successo proprio perché il protagonista dello scritto è un oggetto comune (come la ghiacciaia ed il frigorifero che vengono citati ad un certo punto da qualcuno). Il pensiero che una semplice cosa, vista, maneggiata, conosciuta ed usata ogni giorno, possa ad un certo punto vivere di vita propria o comunque essere posseduta da un’entità per niente amichevole, mi ha creato un senso di malessere proprio alla bocca dello stomaco. Un fastidio permanente. Chiudendomelo, lo stomaco, per un bel po’. Ok, almeno ho mangiato di meno, ma se volevo diminuire l’ingestione di calorie e zuccheri mi mettevo a dieta... Insomma tornando alla storia, il compito di improvvisarsi ghost buster-ammazzavampiri-padre esorcista viene dato ad un poliziotto che, con l’aiuto di un professore di lettere, ingaggia con il compressore di nove metri e vari assassini alle spalle, una bella lotta. Ma c’è un problema, ti puoi improvvisare tecnico wi-fi se non arriva il segnale e allora stacchi e riattacchi la presa del decoder, ti puoi improvvisare tecnico della lavatrice se comincia a fare acqua da tutte le parti e di solito è segno che il filtro è intasato, puoi perfino azzardarti a scaricarti dal web il pacchetto di installazione della stampante se ti sei accorta che il tuo pc non ha lo slot per i cd. Ma non ti improvvisi ghost buster-ammazzavampiri-padre esorcista recuperando qualche cialda benedetta dalla chiesa ed un po’ di acqua santa con l’unico aiuto di un insegnante di lettere (che poteva essere di matematica o inglese se è per questo, non sarebbe cambiato nulla) che ne sa meno di te su riti e rituali. No no. Poi è normale che qualcuno si faccia male, o peggio, che ci scappi il morto. Insomma avete capito come finisce il racconto, che poi non finisce davvero, come ogni buon racconto horror e lascia aperto un terribile spiraglio di prosieguo.
Posto che dopo Il compressore non guarderò più con gli stessi occhi il mio ferro da stiro, prometto che dal momento stesso in cui finirò di scrivere queste righe ascolterò con più attenzione quello che mi dicono i bambini. Perché quello che mi ha spaventato nel racconto Il baubau, più che il babau in sé, è il fatto che per tutto il tempo si sceglie di non ascoltare i piccoli che lanciano di continuo richieste di aiuto e che poi ci rimettono la pelle per l’ottusità degli adulti, yar. Ma andiamo con ordine. Alzi la mano chi, almeno una volta durante la propria infanzia, non ha avuto paura di essere preso da questo mostro o da qualche altro mostro simile ma con un nome diverso. (Nota. Il Babau si chiama Boogeyman in Inghilterra, Bokkenrijders in Belgio e nei Paesi Bassi, Butzemann in Germania, El Hombre Del Saco in Spagna e America Latina, Tokoloshe in Sud Africa e chiudiamo con le versioni femminili Baba Yaga per la Russia e la LLorona per il Messico ma c’è una figura corrispondente praticamente per ogni paese.) Mossa altamente pedagogica e usata da tutti i genitori del mondo quella di terrorizzare a morte degli infanti. Va beh. Ma se anche non è carino spaventare i più piccoli dicendo se non fai il bravo ti faccio prendere dal Baubau, è vero anche che se un nostro figlio, o fratellino o nipotino ci dicesse in camera mia c’è un Mostro noi non lo prenderemmo minimamente sul serio. Ed ecco più o meno cosa è accaduto nelle pagine scritte da King, più o meno perché in realtà c’è uno sviluppo particolare ad un certo punto, vedrete. Il racconto si apre dando l’informazione peggiore, tre bambini, i figli del protagonista, sono tutti morti. Andiamo bene, penso, respiro a fondo e mi butto nella lettura che, una volta finita, mi lascia atterrita per quello che ho già detto poc’anzi. I bambini lo avevano detto, del Baubau, lo avevano detto eccome, con ogni fibra del proprio piccolo essere, lo avevano gridato, avevano pianto, erano stati chiarissimi. Ma niente, non c’è stato verso… e poi, alla fine, sorpresa!!
Nossignori, non parlo della materia grigia intesa come intelligenza, no no. Qui si tratta proprio di roba gelatinosa, grigiastra, schifosissima in cui si trasforma un uomo a seguito, pare, di birra non propriamente venuta da dieci luppoli. Insomma A volte ritornano fa passare la voglia di fare un sacco di cose, fumare, bere, scendere in cantina, comprare giocattoli… Aye. Dunque ci sono quattro amici al bar incluso il proprietario del bar stesso che in un qualche punto a Bangor contemplano e commentano la tempesta di neve che li affligge. Tra una chiacchiera e l’altra questi amici che non vogliono salvare il mondo si danno almeno da fare per il giovane Timmy, figlio di tale Richie, che entra trafelato, smagrito, spaventato, sull’orlo di una crisi di pianto e li prega di dargli la solita cassa di birra per il padre che, a pensarci bene, da qualche tempo, nessuno ha più visto in giro. I compagni di bevute si fanno raccontare un po’ di cose dal ragazzo e capiscono che a casa sua sta accadendo qualcosa di veramente brutto. Decidono dunque di parcheggiare lì Timmy e di fare una sorta di spedizione verso la casa del ragazzo. Il gruppo è composto dal proprietario del bar, dal tipo che ci racconta la storia, un paio di avventori che erano presenti, una cassa di birra e un bella, robusta, pesante, pistola. Arrivati a casa di Richie gli uomini purtroppo vedono avverarsi davanti i propri occhi i timori più tremendi e dopo un breve scambio di opinioni col Blob mangia gatti in cui si è trasformato il padre di Timmy sono costretti a fuggire e a far cantare la pistola almeno tre volte. Non tutti torneranno indietro, ma il tipo che racconta la stria sì. Una volta rientrato nel bar si mette in attesa di vedere se la porta verrà aperta dal suo amico o dal blobbone schifoso. Chi dei due avrà vinto?
Un raccontino molto originale anche se non horror, anzi, a tratti, un omone grande e grosso che combatte, combatte per davvero, contro i soldatini usciti da una scatola da gioco, l’ho trovato divertente. Forse non avrebbe dovuto divertirmi ma l’idea che micro jeep o micro elicotteri lancino proiettili veri contro un tipo che ammazza gente a pagamento costringendolo ad una poco decorosa ritirata in bagno mentre si cura le ferite procurate da mini cannoni e piccole baionette, mi ha fatto ridere. Ad un certo punto li prende a cuscinate! Voi non avreste riso??? Lui ha riso un po’ meno a dire il vero. Soprattutto alla fine, quando i tipetti cacciano nientemeno che una bomba termonucleare che, seppur mini, qualche danno lo farà, vi pare???
Ho letto questo racconto al grido di camionisti di tutto il mondo unitevi! Certo sarebbe un bel guaio se d’un tratto tutti i camion, i rimorchi, le ruspe, i caterpillar e affini esistenti sulla terra prendessero di colpo vita e si ammutinassero contro il genere umano, che poi è quello che succede in queste pagine. Innanzitutto si andrebbero a far benedire le consegne di Ebay, Amazon, Wish e compagnia bella. Per fortuna che qui a Gilead il corriere Bartolini arriva ancora col calesse. Scherzi a parte questo racconto non mi è piaciuto. La storia inizia che siamo già nel mezzo della crisi e un gruppo di camion tiene in ostaggio cinque persone all’interno di un’area di servizio con tanto di pompa di benzina. Leggendo si capisce che i camion hanno assunto un’identità propria e fanno fuori chiunque metta la testa oltre l’ingresso della stazione. Ma non si capisce come mai, non si sa che cosa sia accaduto prima di arrivare al punto in cui iniziamo a leggere, né chi o perché abbia fatto sì che oggetti anche mastodontici ma inanimati, di colpo prendessero vita e decidessero di schiacciare una parte di umanità sotto le gomme cingolate e risparmiare l’altra parte per farsi fare il pieno (che chiedono usando il clacson e l’alfabeto morse). Essendo loro camion e non avendo il dito opponibile per tale funzione. Non so, mi sembra un racconto scritto per forza, magari l’idea è anche buona e King ama rendere maledetti alcuni oggetti di uso comune, ma forse ci sarebbero volute più pagine, più spiegazioni, più empatia coi protagonisti perché così si resta in sospeso nel decidere: è un bel racconto? E’ una ciofeca? E’ un racconto in cerca d’autore trovato in Stephen King stesso che ne ha fatto un film curandone la regia nel 1986? Chi può dirlo, ma posso dire che a me non è piaciuto. E il secondo passaggio sugli schermi, stavolta televisivi, nel 1997 chiamato Trucks – Trasporto infernale, regia di Chris Thomson, si poteva francamente evitare.
Arrivo finalmente al racconto che ha dato il nome alla raccolta (film tv del 1991 per la regia di Tom Mc Loughlin, che pensavate non ci fosse un film???). Questo sì, un bell’horror. Coi fiocchi. Ci sono proprio tutti gli ingredienti. Il protagonista che viene perseguitato dai ricordi di un terribile trauma, i ricordi che a loro volta prendono sembianze un po’ troppo concrete e l’ingaggio della lotta contro il Male che ci sta sempre bene. E stavolta il Male viene combattuto con un’arma molto particolare, direi originale: il Male stesso. Sì!! Colti in contropiede eh? Aye. Un po’ come accade nel recentissimo Later.
Tornando a noi, in queste pagine succede che tale Jim Norman, professore di lettere al liceo Davis, ha la pensata geniale di combattere i demoni che lo perseguitano con altri demoni, lasciando in cambio un piccolo, anzi due piccoli sacrifici. Il punto però è uno: ci si può fidare ad allearsi con dei demoni? Insomma Jim, ti aspettavi lealtà da parte loro? Ma andiamo con ordine. Jim riesce a strappare il posto di professore con le unghie e con i denti dopo un periodo di forte esaurimento nervoso. La sua vita non è stata facile, segnata da mille tragedie. Una su tutte la morte dell’amato fratello, accoltellato sotto i suoi occhi, per mano di tre teppisti di cui poi perde le tracce crescendo. Pur non essendo mai riuscito a scrollarsi di dosso il trauma della morte del fratello, Jim cerca di rimettersi in carreggiata e di riordinare la sua vita, così si rimbocca le maniche e inizia la nuova avventura al liceo Davis spaventato ma anche fiducioso finché accadono due cose, la prima: l’incubo del passato in cui vede morire il fratello ritorna con tutta la sua forza perseguitatrice a fargli saltare le notti; la seconda: settima ora col corso di letteratura contemporanea, la croce di Jim. Non tanto per la letteratura in sé o per gli studenti poco interessati, quanto per il fatto che uno dopo l’altro tre dei suoi allievi perdono la vita e vengono rimpiazzati in classe da… i tre che hanno ucciso suo fratello, Lawson, Garcia e Corey. Sebbene crede di essere impazzito non ci sono dubbi: sono proprio loro. Gli stessi sedicenni di tanti anni prima. Impossibile ma vero. Come può essere? C’è una sola spiegazione, sono morti, vero, ma si sono presi la briga di tornare per lui. Che gentili. Quando in seguito a qualche ricerca scopre che i tre hanno dato come riferimento della scuola precedente il cimitero della zona e che il quarto del gruppo non è con loro perché è l’unico ancora vivo e vegeto e dell’età giusta, il prof fa due più due e i pezzi nella sua testa cominciano ad incastrarsi. La chiave di volta del puzzle è una sola, Jim è la questione in sospeso dei fantasmi e deve trovare un modo per risolvere il problema soprattutto perché gli spiriti gli uccidono anche la moglie. E qui torniamo a quanto detto all’inizio: cerca di tirarsi fuori dai guai usando il libro che da qualche tempo legge, non La grande enciclopedia del bricolage ma Come evocare i demoni. Pare che abbia davvero imparato i passaggi base perché una sera, a scuola, dopo aver dato appuntamento ai tre, apparecchia ben bene tutto quello che gli serve per l’evocazione e ci riesce davvero a chiamare un demone grosso e cattivo e quello lo aiuta davvero a sbarazzarsi di Lawson, Garcia e Corey. Ma come già detto il prof dovrà lasciare un paio di cosette in cambio come pattuito con lo spirito evocato e non solo, alla fine di tutto il nostro pazzo eroe scoprirà che se anche li chiami e li fai venire, i demoni, se anche trovi il modo di usarli, quelli, non è detto che se ne vogliano andare.
A volte, ritornano.
Non so quanti di voi ameranno questo racconto ma a me non è piaciuto affatto. Un’atmosfera di fastidio vissuta nella cosiddetta primavera da fragole (perché da e non di?) che anticipa un finale, sì, che spiazza, ma non so quanto efficace. Cos’è la primavera da fragole? E’ un periodo di tregua dall’inverno ma fasulla, perché poi porterà a neve e basse temperature. Si ripete ciclicamente e nella primavera da fragole del 1968 agisce un serial killer poi chiamato Springheel Jack che fa strage di ragazze nel campus della scuola New Sharon. E anche lui torna ciclicamente, insieme a questa falsa primavera e alla nebbia che tutto circonda. Non so, non mi ha convinta per niente. Ma per niente proprio.
Un racconto molto originale questo. Non propriamente horror anzi per alcuni versi fa sorridere un po’ come quello sui soldatini. Racconta la storia di un triangolo amoroso per il quale un maestro di tennis accetta la scommessa lanciata dal marito ufficiale della sua bella che per togliere tutti dagli impicci del triangolo stesso, lo sfida a fare il giro completo dell’edificio passando, appunto, per il cornicione che lo circumnaviga. Che non è affatto una cosuccia da niente soprattutto perché siamo a tipo quaranta piani d’altezza, soffia un vento forte, non c’è spazio (ovviamente) per muoversi perché il cornicione non è fatto per muoversi e ci sono pure piccioni pazzi e attaccabrighe. Premio per accettare la scommessa? Soldi, libertà e tenersi la moglie dell’altro. L’ultima cosa siamo certi che sia un premio? Va beh… Sta di fatto che il maestro accetta la scommessa lanciata dal rivale e riesce addirittura a fare una cosa molto particolare. Il finale non è dei migliori ma d’altra parte non credo che King lo riscriverà solo perché non è piaciuto a tale Dolores Deschain, però se lo doveste sentire, diteglielo.
Un giorno Harold Parkette si stufa di vedere il prato di casa dominio delle marmotte e dell’erbaccia e chiama la Pastoral, manutenzione prati e giardini. Grosso errore. Fatale direi. Un racconto, questo, più che su una falciatrice assassina, su quanto si debba stare attenti a chi fai entrare in casa e sulle decisioni sbagliate. Harold avrebbe potuto salvarsi, Dio benedica l’erba, ma poi cerca di denunciare l’uomo (che non è un uomo per niente) che gli sta tagliando il prato e quello, dopo aver fatto davvero un bel lavoro con la falciatrice, decide di tagliare anche altro. Non uno dei miei racconti preferiti.
Scommetto che dopo aver letto il racconto guarderete la vostra sigaretta in modo diverso tanto che al posto suo prenderete tra le dita un Mikado che forse farà ingrassare ma almeno vi farà pure restare vivi per raccontarlo. Dunque abbiamo un rosicone di nome Dick Morrison che mentre aspetta non si sa chi all’aeroporto intravede tale Jimmy ma quasi stenta a riconoscerlo perché Jimmy tutto sembra tranne l’ometto emaciato e spento che Dick ricordava. Ed ecco che D comincia a rosicare perché Jimmy non solo adesso ha il fisico giusto, ha successo nel lavoro, pare felice, J soprattutto ha smesso di fumare. Perché Jimmy sì e io no? Pensa tra sé e sé il nostro non Jim Morrison e così si fa svelare il segreto: pare che l’ex smunto abbia conquistato una vita migliore grazie alla scoperta di una società di nome Quitters Inc di cui ne tesse le lodi seppur mantenendo un alone di mistero su diversi punti. Sta di fatto che un mese dopo Dick si ritrova seduto di fronte al tale assegnato al suo caso, Donatti, che ha già firmato il contratto, snocciolato parte della sua vita privata e consegnato le ultime due sigarette che aveva nel pacchetto in tasca. La Quitters Inc è entrata in azione e lo fa prima di tutto fulminando un coniglietto che sembra un’atrocità quando in realtà è la cosa più soft che Donatti dice a Dick che faranno a lui, moglie e figlio, se fumerà di nuovo. Gli sgarri possibili sono dieci e ad ognuno corrisponde una punizione via via più dura. Ma non è tutto, la Quitters Inc fa anche dimagrire con una dieta particolare che, ovviamente, se non si rispetta ha dei castighi specifici e mirati. Saltano dita signori, saltano dita. E Dick Morrison in tutto questo che farà? Beh destino vuole che un paio di anni dopo incontra di nuovo Jimmy, stavolta con la signora e lei possiede un particolare molto importante, anzi, non lo possiede. Ne è priva, in una mano.
Un racconto che lascia addosso molta inquietudine. Un senso di qualcosa di storto fin dall’inizio. Perché le cose troppo belle non sono mai vere e se sono vere l’inghippo sotto stai pur certo che c’è. In questo caso l’inghippo è un qualcosa a metà tra voodoo, invocazioni di spiriti e predisposizioni naturali di preveggenza… di tutto un po’. Si parte col fatto che tutti noi desideriamo incontrare qualcuno che ci comprenda al cento per cento e che ci dia tutto quello di cui abbiamo bisogno. Tutti. Non sarebbe bello? Ti va un gelato e il tipo che ti si è materializzato davanti te lo porta prima ancora che tu lo dica a parole. Ti manca un asciugacapelli e basta volerlo che ce l’hai già in mano, o i risultati di un test fondamentale, una sedia né troppo dura né troppo morbida per studiare. Compagnia quando ti senti sola. Chiacchiere quando non vuoi il silenzio. Comprensione senza nessuna discussione e via dicendo. Ecco quello che capita a Liz, studentessa e fidanzata, che un giorno incontra Edward Non Mani di Forbice ma Jackson Hammer e pure Junior. Edward pare sapere perfettamente ogni sua esigenza così e in un modo o nell’altro le dà tutto quello che le serve. Proprio tutto. Così Liz se ne innamora, finché, grazie alla sua amica che le fa aprire gli occhi si accorge dell’inghippo sopra citato. Un inghippo bello grosso e terribile e oscuro. Vi lasciamo con una raccomandazione, non aprite mai gli armadi dei vostri fidanzati, oltre agli scheletri nascosti dentro ci potrebbero essere cose ben più mostruose.
Questo racconto mi ha fatto molta paura e a proposito di trasposizioni televisive che accennavamo all’inizio, beh, ne conta svariate. Sorrenti cantava siamo figli delle stelle perché sicuramente non aveva incontrato i figli del grano, nar. Dunque il racconto si apre con una coppia in crisi che decide di fare un ultimo tentativo per salvare il proprio matrimonio con un viaggetto in macchina fino in California che, però, si rivela la tomba del matrimonio, letteralmente. I due, Burt e Vicky, non sapendo di essere i protagonisti di un racconto di King, ci provano a portare a termine questo viaggio e mentre battibeccano per l’ennesima volta su una strada sbagliata, una cartina non seguita e compagnia, investono un ragazzo nel bel mezzo di una via abbandonata in un posto sperduto di un giorno dimenticato da Dio. Il massimo insomma. Passati i primi attimi di terrore Burt si accorge però che il ragazzo investito era già stato ucciso da qualcuno (ha la gola tagliata) e solo dopo gettato per strada, nel momento del loro passaggio. La cosa dovrebbe tirarli su ma ovviamente è impossibile avere il morale alto quando hai a che fare con un morto, dunque caricano il corpo nel baule della macchina e decidono di portarlo da qualche parte. Sì, ma dove? Pare proprio che la coppia abbia raggiunto un paese abbandonato, Gatlin in Nebraska, e mentre Vicky propone di tornare alla civiltà dove qualcuno sicuramente potrà aiutarli, Burt si incaponisce e va a fare un giretto del paese dove la vita si è fermata un ventennio prima nella speranza di trovare almeno un’anima viva. In realtà non vuole accontentare la moglie e si allontana a piedi, lasciandola in macchina, non sapendo di aver appena trascorso gli ultimi cinque minuti di vita insieme a lei. Sbirciando in giro poi finalmente capisce che deve darsela a gambe (Burt, n’altro po’ ti mettevano gli striscioni con la scritta “scappa!”) e mettere molta strada tra sé e quel paese di fanatici religiosi e pazzoidi. Perché pazzoidi? No, niente, i ragazzi del posto hanno solo ucciso tutti gli adulti e arrivati a diciannove anni si uccidono anche tra loro al grido di che gli iniqui siano falciati per colui che cammina dietro i filari. Bene, sacrifici umani in onore di una qualche divinità del grano, hai capito che te ne devi andare Burtolino? Burtolino l’ha capito ma, troppo tardi. Quando torna verso la sua auto incontra gli abitanti del posto che si chiamano tutti Moses, Amos, Rachel e Zepeniah e purtroppo questi prima uccidono la povera Vicky e poi partono all’attacco verso di lui. Che Vicky avesse ragione a non voler restare nemmeno un attimo a Gatlin in Nebraska conta poco ormai e Burt oltre a darsi dell’idiota può solo cercare di fuggire. Il punto è che fugge nel luogo meno indicato… un immenso campo di grano. Buuurt che ne sai tu di un campo di grano? Non ti ricordi di Colui Che Cammina Dietro I Fialri? Mannaggia a te. Burt vi si addentra credendo di poter seminare il gruppo di giovanissimi assassini e più si inoltra nelle sterminate onde dorate più nota che il campo di grano è così perfetto che non ci sono insetti sulle spighe, non ci sono erbacce per terra, tutto è immacolato. O meglio, sarebbe immacolato se non ci fossero corpi di adulti crocefissi proprio al centro, inclusa la sua ex povera Vicky. Dunque l’uomo comprende che non può andare oltre e che non gli è concesso fuggire perché il demone al quale i ragazzi offrono sacrifici è arrivato, enorme, possente, gigante. Ed è lì per lui. Sarà un alieno? Un Ent? Uno spaventapasseri abitato da uno spirito immortale? Non si sa, ma leggo che Burt comincia a urlare e non urla per molto, perché Colui che Cammina Dietro i Filari è giunto ed è lui stesso ad ucciderlo, non i ragazzi. Davvero un grande onore pensa Burt mentre il mondo è solo un ricordo e il sole di mezzo giorno è alto nello sterminato campo di grano color oro che sarebbe davvero meraviglioso da vedere, se non fosse che sta morendo. Beh, vi lascio dicendovi che se vostra moglie s’incaponisce e vuole andare via da un posto, ogni tanto, ascoltatela.
Mannaggia la miseria quanto ho pianto. No, non è una storia d’amore e no nemmeno un horror. Che tipo di storia è allora? Beh, forse mi sono sbagliata… è sia una storia d’amore che un horror nel senso che il sentimento descritto è pur sempre una forma d’amore, quello puro e nobile tra fratello e sorella ed horror come può essere spaventoso il suicidio come atto di solitudine estrema e di senso di abbandono da parte di chi lo compie, oltre al fatto della freddezza che può nascere tra due persone che si sono volute bene, un tempo. Kitty, otto anni e suo fratello Larry, dieci anni, amano trasgredire le regole. Una in particolare, salire sulla scala mal messa del fienile che arriva quasi fino a venti metri di altezza. Ma loro lo fanno perché amano buttarsi dalla trave centrale del fienile stesso che li porta proprio sopra un’enorme montagna di fieno. Da lì il salto e la caduta sul morbido… Un giorno però, a furia di saltare e risaltare, l’ultimo piolo della scala cede e Kitty si trova sospesa per aria tra la vita e la morte. E fa una cosa che mi ha sbriciolato il cuore: pur avendo gli occhi chiusi, pur ignorando cosa stesse facendo nel frattempo il fratello sotto di lei (sta ammonticchiando in tutta velocità il fieno per creare una sorta di mega cuscino e attutirne l’imminente caduta), quando lui le grida di lasciare la presa, lei lo fa. Ciecamente fiduciosa che il fratellino maggiore la stesse aiutando. Capite?! Si lascia andare da venti metri di altezza! Qui è la parte d’amore che fa piangere. A questa segue la parte horror di cui dicevamo poco fa. Cosa ne è stato di quei due bambini? Del sentimento così puro che li ha legati? Perché la vita divide così tanto che ad un certo punto non si conoscono più neanche persone che sembravano destinate ad amarsi in questa e nelle prossime vite? Perché ci si perde? Con queste domande esistenziali mi asciugo le lacrime e vado avanti, aye, ricordandovi che non è mai troppo tardi per recuperare un legame che ha significato qualcosa per noi. Se ne vale la pena ci si deve provare almeno una volta o si potrebbero fare i conti a vita con i rimorsi di non averlo fatto.
Un racconto traditore ma d’altra parte sbaglia chi si lascia ingannare dalle prime pagine. Può mai esistere un racconto d’amore solo amore senza ammazzamenti e sangue tra gli scritti di King? No che non esiste e se come me ci avete creduto siete degli inguaribili romantici. Questo racconto mi ha fatto pensare un po’ a Primavera da fragole di cui parlo in questa lunga recensione, stesso finale spiazzante e protagonisti simili. Solo che qui c’è Norma, anzi non c’è, è andata via, Norma non è più cosa mia. Si parte con un ragazzo innamorato in una città che aspetta la primavera, di sera, con colori tenui ed aria dolce, con gente ben disposta a sorridere e con rose colorate. Poi si finisce male. Molto, molto male, ah mannaggia mannaggia…
In definitiva non mi è piaciuto granché.
Molto carino. L’atmosfera del racconto, soprattutto all’inizio, con la tormenta di neve in atto, una taverna con luci soffuse che sta per chiudere e lo straniero di turno che irrompe dentro ed ha sicuramente una storia da raccontare, mi è piaciuta molto. Ecco che lo straniero una volta entrato farnetica di moglie e figlia rimaste in macchina, nella tempesta. Il locandiere lo rimette in sesto con un brandy bello forte che gli scioglie pure la lingua. Il tipo, dal New Jersey, si fa tutta la strada fino al Maine meridionale finché non decide di svoltare, udite udite a Jerusalem’s Lot! Capito??? Con tutti i paesi a disposizione, proprio a Jerusalem’s Lot vanno a chiedere indicazioni stradali! Diventa subito spaventoso questo racconto, e di sicuro il tipo entrato nella locanda in cerca di aiuto non può certo immaginare di aver lasciato moglie e figlia vicino ad un paese infestato da vampiri. Già, vampiri. Tutti nella locanda di Tookey lo sanno che si tratta di succhia sangue ma hanno paura perfino a pronunciare la parola che li descrive. Quasi come se a pronunciarla si potesse attirare, di notte, uno di loro. Per questo gli abitanti del posto si portano dietro croci, medaglie del Papa o di San Cristoforo e qualsiasi cosa sia benedetta. Al tipo entrato nel pub, Lumley, di tutto questo interessa poco e soprattutto viene taciuto a lungo. Ma a parte il taciuto, Tookey coraggiosamente propone al suo amico Booth di andare a prendere le donne. Il riscaldamento nell’auto a quell’ora sarà bello che finito e vuole recuperarle prima di ritrovarle allo stato di ghiaccioli. O in qualche altro stato, peggiore. I tre uomini così si mettono in macchina e affrontano la bufera in attesa di affrontare qualcosa di più mostruoso e si dirigono a Jerusalem’s Lot. Una volta arrivati Tookey e Booth dicono finalmente a Lumley la verità su quel paese ma ovviamente l’uomo non ci crede e si mette alla ricerca di moglie e figlia. Le troverà, vi dico, questo è certo e non sono nemmeno congelate, certo anche questo com’è certo che gli uomini non sono arrivati in tempo prima che incontrassero la fauna locale. Per fortuna, nonostante tutto, qualcuno per raccontare la storia è rimasto anche se nella notte sente ancora la voce di una bambina molto assetata che cerca di attirare sprovveduti che passano da quelle parti. Credetemi, molto meglio far finta di non sentire quei richiami e tirare dritto. Dopo essersi fatti il segno della croce.
Stephen King ha lasciato il racconto più terrificante per la fine. Vi chiederete, si parla di vampiri anche qui? Di zombi anche qui? Di roba grigiastra che infesta le menti o di bambini che offrono sacrifici a dei pagani? No, no, no e no. Niente di tutto questo. Nel racconto siamo immersi nella pura e semplice realtà. E i protagonisti sono madre e figlio. Lei in preda alle sofferenze del cancro, lui, con una boccetta di farmaci in mano, che si chiede se, una volta per tutte, sia giusto liberare la madre da tali indicibili dolori. Eutanasia, sì. Omicidio, certo, può essere. Fatto sta che per tutto il racconto sembra di trovarsi in quell’ospedale, di sentire tutti gli odori del luogo. Brutti odori, odori di morte. Per tutto il tempo sembra di ascoltare le radio di ectoplasmi, come dice King, e si vorrebbe uscire fuori. Lontano da quelle mura che racchiudono sofferenze e portano le persone a diventare veri zombi. Un racconto che apre mille interrogativi e dibattiti, che parla di morte e dolore. Il dolore così forte che passa i livelli di umana sopportazione e porta le persone a essere qualcos’altro. Quasi aliene, non più genitori, semplici donne nella stanza. Un racconto che culmina come ci si aspetta. E lascia aperta la domanda fondamentale: è giusto decidere della vita di un’altra persona, per quanto questa possa soffrire? A voi la risposta.
Alla prossima e come sempre lunghi giorni e piacevoli notti, cari coloni sperduti.
Vostra affezionatissima
D.D.
Dolores Deschain
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