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L’ultimo cavaliere | La Torre Nera

L’ultimo cavaliere | La Torre Nera

Contiene Spoiler! Coloni avvisati…

Serie La Torre Nera:

L’ultimo Cavaliere.

 

Lunga vita alle vostre messi, cari coloni sperduti. 

Sì, avete letto bene: per festeggiare un anno dal debutto di Gilead e dintorni. Tutti i libri di Stephen King o quasi, ho deciso di seguire il cammino che il Ka ha deciso e partire alla conquista della Torre Nera! Non posso nascondere una grande trepidazione mentre fisso la copertina del libro, con Roland che guarda a terra, fedele pistola in mano, immerso nel torrido di un deserto senza fine. Alle sue spalle, torva e cupa si staglia la figura della Torre Nera. Venite con me, sarà dura, sarà lunga e incontreremo molti pericoli, ma ho fede che ce la faremo. Quello di cui vi parlerò oggi è il primo volume dei sette che compone la serie più dibattuta di sempre perché se IT è un pianeta parallelo, L’ombra dello scorpione un mondo a parte, La Torre Nera è un intero universo. Un universo che conta: L’ultimo cavaliere, La chiamata dei tre, Terre desolate, La sfera del buio, I lupi del Calla, La canzone di Susannah, La Torre nera. Una saga (in alcuni punti eccessivamente sopra le righe perfino per Stephen King) che nelle sue uscite nel corso del tempo ha coperto uno spazio di ben ventidue anni e il cui finale è ancora oggi argomento di dibattito. La mitica epopea del pistolero conta anche un bonus, La Leggenda del Vento del 2012 ma quest’ultimo non porta nulla di più alla storia che si conclude ufficialmente nel 2002. Della pellicola recente con protagonisti Idris Elba e Mattew McConaughey non parlo nemmeno, anni e anni in febbrile attesa per assistere a qualcosa di deludente, insignificante, poco coraggioso, in una parola: inutile. Dunque ivi giunta mi armo di una Colt .45 e parto. Non mirerò con la mano, ma con l’occhio, non sparerò con la mano, ma con la mente, non ucciderò con la pistola, ma col cuore, anzi, il Re mi perdonerà, ma non ucciderò proprio.

Il mondo andato avanti.

La Torre Nera vanta una struttura complessa, fantasiosa, misteriosa, avvincente e a volte un po’ troppo fuori dagli schemi, questo va riconosciuto. Narra le vicende dell’ultimo discendente in vita di Artù (sìsìsssì proprio quel Re Artù) Roland Deschain e racconta come dedichi la sua esistenza alla ricerca della Torre Nera. Una torre che racchiude tutti i mali del creato e che deve essere abbattuta per salvare quel po’ di Umanità rimasta nel mondo andato avanti che un tempo conosceva carta, telefoni, stazioni dei treni. Tutte cose abbandonate. Pochissimo infatti si ritrova nel mondo di Roland di quella che è stata la vita di una volta, seppellita dalle ere passate, sepolte sotto la sabbia del deserto e del tempo, per poter esser ancora ricordato. Ma se ufficialmente Roland detto anche Roland di Gilead, detto anche il Pistolero, detto anche L’ultimo cavaliere, deve trovare la Torre per proteggerla, ufficiosamente lo fa perché non potrebbe fare altro. È il suo destino, è quello per cui è nato ed è stato addestrato, è il Ka. Questo lo porterà spesso a dover prendere decisioni controverse e a volte terribili. Personalmente ho avuto due fortune prima di leggere i sette libri. Fortuna Uno: li ho presi tutti assieme e letti uno dopo l’altro come se fossero usciti contemporaneamente e Fortuna Due, la mia edizione de L’ultimo cavaliere è una di quelle rivedute, corrette e ampliate da Stephen King stesso. Le due cose mi hanno permesso di gustarmi ogni singola frase e di avere una visione del mondo del pistolero, discendente degli Eld, più intensa rispetto a quei coloni che per forza di cose hanno dovuto attendere le uscite ufficiali, anno dopo anno, per ventidue anni. Provate anche voi a leggerli tutti di fila, l’unico effetto collaterale potrebbe essere quello di andare in overdose da Torre e parlare tutto il giorno di Ka e ka-tet, di bimboli (se non vi affezionate a Oy non avete un cuore), sigul e di Vettori, ma niente di ché, no? Pensate se aveste dovuto attendere due decadi per leggere la fine. Si racconta ancora la storia di un detenuto nel braccio della morte che, appassionato della saga, alle porte della sua esecuzione ha scritto a King nella speranza che gli potesse spifferare il finale della storia prima di partire per l’ultimo miglio del dead man walking. Peccato che King stesso non sapesse ancora cosa avrebbe scritto… o sì?

L’uomo in nero fuggì nel deserto e il pistolero lo seguì.

Con questo incipit il Re mi catapulta con tutti gli stivali da pistolero nella storia. Trovo così Roland nel bel mezzo di un deserto infuocato e capisco immediatamente che non ho a che fare con un commesso di Unieuro. Non sarà Superman ma certamente possiede abilità fuori dalla norma se riesce a bollire ben bene dal caldo e a tenersi l’otre d’acqua ancora quasi pieno sul fianco e non bere con 50 gradi che picchiano in testa. Vede ideogrammi formarsi dall’erba diavola bruciata dal fuoco, conosce stelle e costellazioni, ha mille talenti nascosti e manifesti tipo ricaricare la pistola a velocità della luce e sicuramente la sua mente è sveglia, attenta, incredibilmente pratica. Ho anche qualche informazione sull’uomo in nero (ricordate il tremendo Randall Flagg de L’ombra dello Scorpione? E’ lui, ma in queste pagine si fa chiamare Walter o’Dim) e Roland stesso mi fa capire che ha doti sovraumane. Sono già due mesi che lo insegue ma quello pare essere sempre un passo avanti, inafferrabile come un’anguilla tirata fuor d’acqua. Ma Roland è certo che prima o poi gli metterà le callose mani addosso e mentre scruta il cielo sopra di lui che si è fatto scuro di imbrunire, ripensa a Cort, una persona legata al suo passato e fondamentale per il suo addestramento da pistolero oltre che per la formazione di quel carattere burbero, spigoloso e secco come il deserto che ha attorno. Direttamente o indirettamente incontro personaggi cruciali per la storia ma quello che mi colpisce di queste pagine è lo stile ispirato e suggestivo che ha usato Stephen King. Sembra davvero di vedere concretizzarsi un dipinto man mano che si legge: “Sopra di lui le stelle non ammiccavano, costanti anch’esse. Soli e mondi a milioni. Costellazioni da toglier il fiato, gelidi roghi di tutti i colori primari. Sotto di lui il cielo s’incupì dal viola all’ebano. Una meteora tracciò un arco spettacolare ed effimero sotto la Vecchia Madre. Il fuoco creava strane ombre nel lento consumersi dell’erba diavola…” L’atmosfera è melanconica ma anche carica di aspettative. Affascinante nel dettaglio dei colori che vengono presentati, nella poesia del deserto e del suo cielo, seppure un cielo durissimo, nella forma concreta di questo uomo solitario, che fa pensare a Clint Eastwood di Per un pugno di dollari. Probabilmente non ritroverò più pagine così cariche di ispirazione, per questo, me le gusto mentre me le lascio alle spalle. Fatta un po’ di strada insieme a Roland incontro il colono Brown che devo ancora capire se sia vivo, un fantasma o addirittura l’uomo in nero stesso, intanto il tipo  manda gentilmente Roland a quel paese, lui e il mulo, una frase sì e l’atra pure.

A Tull un vero macello.

Mentre Brown prepara mais e fagioli Roland gli racconta quello che gli è capitato a Tull e comincio a riprendere confidenza con termini come Entro-Mondo, il posto che il pistolero si è lasciato alle spalle; Medio-Mondo, un luogo che si dice essere verdissimo ma che Roland crede essere una bugia, bimboli ovvero animali che parlano e Uomo-Gesù, il Gesù che conosciamo noi ma del mondo della Torre Nera. Nel frattempo, a furia di mandare il mulo a quel paese, il poverino ci rimette le penne ma pare che nessuno se ne faccia cruccio, anzi, viene pure cucinato. Il fatto scioglie la lingua al pistolero che racconta tutta d’un fiato la sua avventura nel paese lasciatosi alle spalle, Tull appunto, dove le famiglie di contadini hanno rapporti incestuosi, si aggirano demoni e dallo schifo di osteria di turno si sentono arrivare le note di Hey Jude. A questo punto mi rendo conto che, uno, Roland non ha mai parlato tanto in vita sua, due, avevo ragione poco fa: le pagine ispirate sono sparite e sono testimone diretta di come King riesca a descrivere talmente bene il marcio e il cattivo, che una parte di me è a disagio. Sento le note della canzone ma mi sembrano stridule, ho visto passare una corriera con dentro qualche morto, mi porto dietro il mulo che non è ancora stato servito con i fagioli ma sinceramente me ne vorrei andare via. Tull non mi piace. Tra l’altro mi guardano tutti storto ed è facile capire che neanche io sono simpatica agli abitanti del posto. Allora mi nascondo dietro Roland. Ma resto, mannaggia a te pistolero, inchiodata dalle frasi ipnotiche che forse Roland stesso ha potenziato con il potere della parola e vedo che accade.

Diciannove.

Accade che Alice, la cameriera/barista/non so cos’altro della bettola dove Roland si spazzola tre hamburger di vacca a sei zampe, racconta di come Walter sia arrivato a Tull e di come questo abbia dato prova delle sue arti magiche. La prova più grande che dà è far tornare in vita tale Nort, novello zombi e masticatore indefesso di erba diavola. La scena è descritta talmente bene che mi viene voglia di dire una preghiera, farmi una doccia, coprirmi con qualcosa. 

E non ho più fame (il ché non mi spiace). In questo paese mezzo morto che va verso la disfatta totale ci penserà Roland a uccidere l’altra metà non ancora morta, facendo numerose vittime: trentanove uomini, quattordici donne e cinque bambini. Una strage annunciata, annunciata da Walter e dalle varie trappole che ha sparpagliato qua e là in attesa che il pistolero ci cascasse. Per quanto sveglio e forte Roland non può scampare da tutti i tranelli e per salvarsi la vita e riprendere la sua corsa fa’ fuori praticamente tutti, inclusa Alice che pure si era accompagnata a lui, caduta in una stregoneria lanciatagli dall’uomo in nero. Le giornate di Tull sono invase di cattiverie, tradimenti, uccisioni e malefici vari, ve ne succedono così tante che la sensazione di atterrimento che mi prende mi fa dimenticare perfino che a raccontarcele è ancora Roland dopo che tutto è già accaduto e quando torno da lui e Brown e la storia riprende il suo corso, mi viene spontaneo dire “ah, già, vero… Lo stava solo raccontando”. Se quindi le prime pagine sono state evocative, suggestive e quasi struggenti, queste sono horror di prima scelta e chi mi vuol contraddire lo faccia, ma ha dimenticato il volto di suo padre.

Jake Chambers.

Roland chiude il capitolo Brown e si lascia tutto alle spalle riprendendo il viaggio questa volta a piedi. Ma non ha paura perché lui va dove deve andare e fa quello che deve fare, per citarlo. E questa è tutta la sua filosofia di vita. L’ennesima notte all’addiaccio non lo sconvolge di certo, eppure, accanto al fuoco quasi spento, mentre ripensa al passato, a quello che lui è stato un tempo, ripensa a Susan, alla sua Susan e persino un cuore granitico come il suo non può evitare un fremito d’emozione. Quel vecchio scorbutico romanticone che non è altro per sedici giorni attraversa il deserto e stavolta è davvero ad un passo dalla morte quando incontra qualcuno che sarà fondamentale per il suo presente e per il suo futuro (seppure in modo molto tragico). Eccolo qui, Jake Chambers, a volte detto Bama, un bambino di dieci, dodici anni che si ritrova suo malgrado immischiato nelle faccende della Torre. Quanta tenerezza che mi fa Jake. Confuso, solo nel torrido del deserto, dopo aver incontrato anche Walter, rifocilla e salva Roland ma al tempo stesso è spaurito, non ricorda più chi è, da dove viene, cosa deve fare. Appartiene a un altro tempo, si può dire a un altro mondo, eppure Qualcosa lo ha trascinato in un universo lontanissimo e diversissimo dal suo. Perché? Perché proprio lui? Ed è giusto che chi non ha niente a che fare con la Torre venga preso arbitrariamente e messo a forza in un meccanismo che non lo interessa? Sono più o meno le stesse domande che si fa il pistolero che ha intuito che Jake non appartiene a quel posto, così, sfodera l’ennesima risorsa tipo coltellino svizzero, prende una cartuccia e ipnotizza il bambino con un abile gioco di dita facendogli ricordare quello che gli è accaduto. Lo fa anche per se stesso, perché deve capire chi ha di fronte. Purtroppo ha di fronte una vittima dell’uomo in nero e probabilmente al tempo stesso una trappola umana. Grazie all’ipnosi, o regressione che dir si voglia, vedo la morte del piccolo per mano del tremendo Walter che lo spinge e lo fa investire da una macchina, un giorno qualunque in cui va a scuola e per lui mi dispiace ancora di più. Attraverso il racconto di Jake anche Roland “vede” la sua morte ma, per ovvie ragioni, non riesce ad inquadrare né il posto dove vive il bambino né l’epoca, cose troppo distanti e difficili da afferrare per la sua mente di abitante di un’era lontana, che archivia il caso come una sorta di allucinazione del piccolo. A parte il dispiacere per la morte di Jake, per i suoi genitori praticamente assenti dalla sua vita, per una fotocopia di affetto che il bambino ha dato ed avuto solo dalla governante, mi fa piacere vedere come Roland lo prenda in simpatia. Nasce tra i due subito una grande complicità, quasi affetto, addirittura quasi amore fraterno. E anche se il pistolero crede che perfino quest’aspetto sia una trappola lasciatagli dall’uomo in nero, da parte mia sono un po’ rassicurata, per il momento almeno. Ma temo che anche questa sensazione di sicurezza svanirà presto.

Un salto nel passato del pistolero.

La mattina dopo i due esplorano l’unica area del posto che abbia ancora un odore, un odore schifoso tra l’altro, la cantina della stazione di posta dove si sono incontrati. Mentre scende dabbasso Roland attiva la  vista notturna tipo modalità notte di Android e dà un’occhiata. In cantina ci sono viveri e c’è un demone. Il pistolero si prende cura di tutto e parte per il suo viaggio verso le montagne con Jake. Il loro legame si fa ancora di una tacca più stretto e quando Jake invece di dire “” dice “yar”, il cuore di granito di Roland ha un sussulto. Possiamo dire la parola, affetto. Il deserto continua ad essere un osso duro, tanto che Jake ha un malore e il pistolero se ne prende cura a modo suo, sembra che da una parte gli voglia dare uno schiaffone e dall’altra un abbraccio. Fatto sta che mentre i due si riposano un po’ l’ultimo cavaliere torna al passato che parla del falco David che mi ritroverò a piangere, di Cuthbert e della Nuova Terra. Grazie a questo salto temporale capisco da chi ha ripreso le buone maniere Roland e vedo Cort che chiama tutti gentilmente larva, dare le sue lezioni di vita a volte sbraitando, a volte usando la Lingua Eccelsa. Mi è simpatico Cort, mi fa pensare a un misto di Bud Spencer, Oogway, Sergente Maggiore Hartman e Capitan Harlock. In questo passato del giovane Roland è racchiusa già l’essenza del pistolero che sarà. Nel ricordo sono testimone di come lui scopra un tradimento a danno della corte che lo spinge a mandare alla forca l’uomo che il giorno stesso  gli ha passato sotto banco una fetta di torta. Lui lo credeva un essere speciale, fidato, buono. Ma nell’Entro-Mondo è questa la dura legge. I traditori vanno mandati a morire, collo spezzato prima e piedi mangiati dagli uccelli dopo. Così, assalito dai ricordi Roland si perde in essi anche il giorno dopo ma ci pensa Jake a farlo svegliare, quando gli indica la sagoma dell’uomo in nero davanti a loro, una sagoma indistinta e lontana, ma indubbiamente quella dello stregone. Walter sta scalando le montagne come fosse un giochetto ma nonostante tutto Roland gli è sempre più vicino e questo è un dato di fatto, yar.

Non una fine, ma la fine del principio.

“Un istinto impalpabile aveva ridestato il pistolero dal sonno nell’oscurità vellutata caduta su di loro al crepuscolo come un sudario d’acqua di pozzo.” Leggete bene questa frase cari coloni sperduti, perché sarà l’ultima descrizione poetica e suggestiva prima che tutto precipiti. Prima che cavaliere e uomo in nero si ritrovino faccia a faccia e prima che la trappola Jake scatti. Sì, perché ormai è chiaro che il ragazzo sia stato attirato nel mondo di Roland solo per catturarlo con l’amore paterno, per farlo cedere, per farlo cadere, per indurlo in tentazione e corromperlo nell’animo. Dunque nell’ultima parte del libro vedremo Roland Deschain figlio di Stephen combattere una guerra del tutto personale con sé stesso. Dovrà scegliere quale cammino seguire, se quello indicato dall’oracolo che porta a Walter e alla Torre e alla morte del piccolo Jake o quello dell’affetto che porta al bambino ma cancella tutto il resto. E siccome sappiamo che Roland fa semplicemente quello che deve fare, sappiamo anche quale sarà la sua scelta. Terribile, tremenda, inconcepibile. Eppure nulla è più forte della Torre Nera, del poter entrare in quell’ultima maledetta stanza. E forse il pistolero neanche sceglie in realtà, è semplicemente addolorato proprio dal fatto che in cuor suo sa che sacrificherà il ragazzo pur di arrivare a Walter o’Dim. Non è neanche senso di colpa quello che prova, ma schiacciante consapevolezza di non avere altra scelta. Dopo esorcismi, inseguimenti di mutanti, corse su binari nel buio più completo e arrampicate estreme, arriviamo al nodo. Il nodo si scioglie e il pistolero si trova a tu per tu con l’uomo in nero, a tenere convegno. Ammetto che ogni volta che arrivo a questo punto spero che quello zuccone di Roland ci ripensi.  Mi metto a urlare “non farlo, non farlo!”. Ogni volta lo spero davvero anche se conosco il finale. Ogni volta Jake mi fa tenerezza, mi commuove. Il suo cercare di fargli cambiare idea, il suo non fuggire pur sapendo a cosa va incontro e alla fine, il suo concedergli di fare quel che deve senza nemmeno gettare un grido. Possibile che non ci sia altra scelta? Possibile che alla Torre si debba sacrificare davvero davvero tutto? Eh sì, così pare.

L’appiccato, il Marinaio, il Prigioniero, la Signora delle Ombre, la Morte, la Torre, la Vita.

Dopo Jake e dopo quanto letto uno si immagina che nello scontro finale parta tra i due rivali un duello memorabile e invece no. Che fanno loro? Parlano, accendono un fuoco, mangiano e leggono i tarocchi. Non come amici certo ma questo fanno. Di cosa parlano? Di tutto e niente, o meglio di Vita, Morte, Religione, Universi paralleli, Cancro, Re Rosso, Anima, Destino, la Torre Nera, e poi ancora della Creazione, del Nucleare e almeno altri venti argomenti. L’ultima parte del libro sembra un qualcosa a metà tra ispirazione e allucinazione e io mi sento un po’ confusa (al pari di Roland che non conosce molti degli argomenti citati perché troppo lontani da lui ma li accetta e basta), un po’ incavolata perché volevo qualcosa di diverso, una lezione all’uomo in nero, diciamola tutta e sono anche un po’ presa dall’eccitazione della Chiamata dei Tre, come Walter preannuncia al cavaliere. I Tre che troverà tra le Porte, sulla spiaggia (la famosa spiaggia che molti indicano come la stessa nella quale il Randall Flagg de L’ombra dello scorpione e che prenderà il nome di  Walter o’Dim nella Torre Nera). Quindi è lì che mi dirigo insieme al vecchio Rò, ce l’ho ancora con lui per Jake e in realtà anche per il falco David e la brutta fine che gli ha fatto fare, e ci vorrà tempo affinché la rabbia nei suoi confronti scemi, ma in fondo ho tutto il tempo di tutti i mondi esistenti per farmela passare. E soprattutto io non sono un pistolero, che ne so di cosa significhi inseguire la Torre ed essere l’ultimo della mia specie, quasi immortale, quasi folle, quasi un eroe. Dunque cari coloni sperduti buona lettura di questo libretto che pur essendo di gran lunga più breve dei suoi fratelloni che lo seguiranno ha racchiuso già tutte le tematiche della saga ed ha anticipato molto di quanto si leggerà nell’ultimo libro de i magnifici sette. Amatelo, odiatelo, leggetelo, lanciatelo contro qualcuno, custoditelo ma non lasciatelo chiuso in un cassetto, oppure dimentichereste il volto di vostro padre. Aye.

Vostra affezionata

D.D.

Dolores Deschain.

   

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